Con l’invasione russa in Ucraina nella notte tra il 23 e il 24 febbraio 2022, il mondo è passato senza soluzione di continuità dall’emergenza della pandemia all’emergenza della guerra.
Per un certo periodo di tempo, i due stati di emergenza si sono addirittura sovrapposti. Solo per parlare dell’Italia, il Decreto Legge n. 24 del 24 marzo 2022 stabiliva al 31 marzo 2022 la chiusura dello stato di emergenza, dichiarato il 31 gennaio 2020 per contrastare la diffusione dell’epidemia da Covid-19, con il superamento graduale – da lì alla fine dell’anno – delle misure di restrizione, quali l’uso delle mascherine Ffp nei luoghi chiusi o la certificazione verde per accedere ai luoghi di lavoro, negli ospedali e nelle RSA. Ma già un mese prima, il 25 febbraio 2022, il Consiglio dei Ministri aveva deliberato, con una valenza iniziale di tre mesi, la dichiarazione dello «stato di emergenza per intervento all’estero in conseguenza del grave contesto emergenziale in atto nel territorio dell’Ucraina», «per l’attuazione degli interventi urgenti di supporto alle attività di soccorso ed assistenza alla popolazione interessata», e il decreto-legge 14/2022 che determinava la partecipazione di personale militare alle iniziative della NATO per l’impiego della forza ad elevata prontezza, e la cessione di mezzi ed equipaggiamenti militare all’Ucraina «a titolo gratuito non letali di protezione». Tali disposizioni urgenti sono state via via prorogate, e nel momento in cui scriviamo lo stato di emergenza sarà vigente fino alla fine del 2023.
Nella storia dell’umanità, guerre e pandemie si sono intrecciate con grande frequenza. Ma fino a qui, la successione era avvenuta in senso inverso: prima scoppiavano le guerre, poi – o durante la guerra stessa o finita la guerra – scoppiavano le epidemie[1].
Questa volta è accaduto il contrario. La pandemia da Covid-19 è partita dalla Cina e da lì si è diffusa in tutto il mondo per effetto della globalizzazione sociale ed economica, attraverso relazioni commerciali e transiti turistici intercontinentali, trasportata da manager di multinazionali e viaggiatori facoltosi, a bordo di aerei e navi da crociera. Dopo due anni di lutti e restrizioni, che hanno imposto l’interruzione improvvisa delle rotte globali – salvaguardando però e anzi ultrapotenziando la globalizzazione digitale e informatica – mentre il mondo stava lentamente riemergendo dal lockdown e il virus aveva iniziato a perdere forza e a endemizzarsi, hanno ricominciato a spirare venti di guerra, che poi, nel volgere di poche settimane, si sono effettivamente materializzati.
Ci sarà bisogno di indagare molto accuratamente su che cosa è accaduto in quelle settimane, se è stato fatto effettivamente tutto il possibile perché ciò non accadesse, se davvero non era possibile fermare Putin, quale ruolo hanno giocato gli Stati Uniti in rapporto con l’OSCE e con i paesi europei che seguivano direttamente la crisi russo-ucraina (Francia e Germania). Fatto è che da oltre un anno in Ucraina si combatte una guerra che sta producendo mutamenti di assetti geopolitici e di modalità di gestione delle relazioni internazionali di una portata enorme, come non si vedeva dalla fine della Guerra fredda. E sta producendo centinaia di migliaia di morti, da una parte e dall’altra, nel silenzio assordante di ogni istanza morale e umanitaria, sopraffatta dai rombi di bombe e artiglieria pesante, dalla contabilità di metri di territorio perduto o riconquistato, dall’esaltante riscoperta della bellezza della guerra (con la retorica degli eroi e dei patrioti) come segno di esistenza e di unità di un popolo.
Fin dall’inizio ho avvertito il prodursi di un cambio radicale nella narrazione delle scene di guerra che venivano rappresentate davanti ai nostri occhi: la pietà lasciava subito il posto al sostegno militare, sia in parole che in armi; la guerra, che avevamo imparato a definire «flagello dell’umanità» dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale e a pensarla come «via bloccata» per la soluzione di controversie internazionali nell’età nucleare, era tornata ad essere «giusta» e «necessaria» a perseguire una pace a sua volta «giusta»; nonostante l’esperienza fisica della comune vulnerabilità derivante dalla pandemia da Covid-19, che ci chiamava a rispondere positivamente all’appello dell’Enciclica papale Fratelli tutti, la politica internazionale tornava indietro di ottant’anni a replicare la contrapposizione amico/nemico di schmittiana memoria, dimenticando tutti gli sforzi compiuti in direzione dell’affermazione del paradigma della relazione e del riconoscimento reciproco contenuto nella Carta delle Nazioni Unite.
Fin da subito chi invocava la pace e una soluzione nonviolenta della crisi era considerato nel migliore dei casi un idealista, anche un po’ ipocrita, nel peggiore dei casi anti-ucraino e filo-putiniano; il discorso della pace, la prospettiva della pace, sono stati rimossi, cancellati, attaccati con violenza pari a quella degli aggressori; un linguaggio militarista si è imposto sullo sforzo dell’analisi volta a ricercare spazi per il dialogo e per il negoziato.
Come mai stava accadendo questo? Perché il dibattito pubblico dominante spingeva alla marginalizzazione fino alla stigmatizzazione di ogni pensiero pacifista? E quando la politica aveva disimparato la pratica della pace, incapace, come sembrava essere diventata, di usare l’arma delle parole per trovare gli accordi?
Sono queste le domande che dall’inizio della guerra in Ucraina mi hanno assillato ogni giorno, inducendomi a fermare tutte le altre preoccupazioni o piste di ricerca, per capire cosa fosse successo e cosa stesse accadendo, per cercare, nei racconti delle diverse fasi del conflitto, i punti di una pace possibile e gli errori che l’hanno allontanata.
Credo molto nel potere della parola. Hannah Arendt, riproponendo per la politica il modello della polis, lo spazio nel quale cittadini liberi ed uguali si incontrano per discutere e decidere insieme il destino della città, diceva che la politica era parlare, che la parola era azione e che la violenza interrompeva l’agire[2]. Per lei non era vero che la guerra era la continuazione della politica con altri mezzi, come aveva detto il Barone von Clausewitz[3]; al contrario, il potere politico si nutriva di quell’agire di concerto che gli uomini praticavano con la parola nella polis. Potere e violenza sono per la Arendt opposti, antitetici; la violenza mette fine alla politica perché mette fine alla parola, e con essa all’azione. Non mi ha mai convinto lo sviluppo che la Arendt ha dato di questo pensiero, traducendolo nell’idea del “Politico” come attività di giudizio che mantiene la purezza solo nella forma dell’agire, quella della parola pubblica e della partecipazione libera, ma vuota di contenuti[4]; ho sempre cercato, tuttavia, di salvaguardare, di questa idea del “Politico”, il potere della parola, foriera di creazioni e nuovi inizi, contro, appunto, l’idea del “Politico” che per Schmitt[5] si manifesta solo nello stato d’eccezione, nel potere di decidere la guerra e nella dicotomia tra amico da difendere e nemico da combattere.
L’altro debito intellettuale per questo approccio alla politica internazionale lo devo riconoscere alla recente lettura che ho fatto delle opere di Ekkehart Krippendorff. Il pensatore tedesco intende riabilitare le posizioni idealiste rispetto al realismo politico nettamente predominante in politica estera, ricostruendo storia e teoria della politica internazionale da un punto di vista morale e sostenendo che gli attori della politica estera agiscono in base a interessi che non corrispondono a quelli dei loro cittadini. La sovranità, la politica di potenza, la ragion di stato – che dal Cardinale Richelieu in poi continuano a guidare le relazioni internazionali, conducendo sistematicamente a guerre e conflitti – dovrebbero, secondo Krippendorff, essere sostituite dalle pratiche di interdipendenza, solidarietà e pace[6]. Se non una sostituzione, il secondo trittico dovrebbe perlomeno essere agito in funzione di un temperamento del primo, e impugnato da una opinione pubblica informata che partecipa per quanto possibile a processi consultivi e deliberativi e controlla i propri rappresentanti istituzionali nell’esercizio del loro mandato.
La forza della parola e il potere dell’opinione pubblica sono componenti della politica che mi riprometto di riattivare ora, davanti a questa guerra combattuta dentro i confini europei.
È in questo senso che ho cercato, nella ricostruzione del conflitto tra Russia e Ucraina, limitandomi alla fase iniziata nel 2014, di decifrare i punti di forza e i punti di debolezza degli accordi e dei negoziati, di rileggere le dichiarazioni dei capi di stato e di governo più coinvolti nella crisi, di ripercorrere tutti i tentativi di mediazione, prevenzione e cessazione del conflitto, e infine di richiamare le narrazioni ideologiche a sostegno dell’una e dell’altra parte all’interno del dibattito pubblico occidentale. Per cercare, nello scontro e incontro di parole, frasi e discorsi, anche soltanto il più flebile aggancio per far tacere le armi.
Dagli ultimi mesi del 2021 ad oggi, si è tentato ripetutamente di evitare la guerra e poi di farla finire. Ma ancora questo non è stato possibile. Forse, mai nessun altro conflitto è stato così tanto accompagnato dagli sforzi della diplomazia, sempre al lavoro in tutte le forme e con tanti attori diversi; eppure forse mai in nessun altro conflitto non ci sono stati “cessate il fuoco” né pause da combattimenti. Forse in nessun altro conflitto come questo ogni azione, diplomatica o militare, è mai stata tanto preannunciata. Eppure i due piani, quello diplomatico e quello militare, andati avanti parallelamente, non hanno fin qui trovato alcun punto di incontro tale da poter dire: fermiamo le armi.
Nel rileggere e analizzare i diversi momenti della guerra, che è mia intenzione riportare depurati, per quanto possibile, dai condizionamenti della mia posizione che è dichiaratamente ed apertamente pacifista, mi propongo di far emergere come, anche tenendo conto degli interessi diversi, talora contrapposti, l’accordo sia sempre nelle disponibilità degli attori coinvolti, e come possono essere errori (di comunicazione, di comprensione, di propaganda) a impedirlo.
Nel XXI secolo, con la presenza ancora massiccia di armi nucleari, con la catastrofe ambientale che incombe, con i rischi di nuove pandemie, il ricorso alla guerra non dovrebbe essere davvero più una via perseguibile per risolvere contese internazionali. Occorre riprendere il pensiero contro tutte le guerre e per la pace e la sicurezza di tutti i popoli.
Il volume è composto di due parti, più una.
La prima parte ricostruisce la crisi tra Russia e Ucraina esplosa nel 2014 con la destituzione di Yanucovich, la rivolta filo-occidentale Euromaidan e quella filo-russa nel Donbass dall’altra. L’intento dei primi due capitoli è quello di analizzare la fase che ha portato agli accordi di Minsk tra 2014 e 2015, per poi approfondire il ruolo dell’OSCE, i suoi limiti e le sue potenzialità in qualità di organismo nato proprio per garantire il processo pacifico verso la democratizzazione dei paesi dell’ex blocco sovietico dopo il crollo del Muro di Berlino e la disgregazione del Patto di Varsavia. Il terzo capitolo è dedicato ai discorsi dei principali attori statali coinvolti: Vladimir Putin, con il suo disegno dichiarato già dal 2007 di ricostituire l’Impero russo; Joe Biden, desideroso di ricollocare gli USA al centro del mondo dopo la rovinosa ritirata dall’Afghanistan del 2021; Volodymyr Zelen’skjy, il presidente eletto democraticamente dagli ucraini nel 2019 con l’obiettivo di riportare pace e legalità nel paese; Jens Stoltenberg, segretario NATO che ha svolto un ruolo politico assai più forte dei leader di Stato nell’ottica di rilegittimare il posto dell’Alleanza Atlantica in una fase assai incerta per l’ordine mondiale. Il quarto capitolo analizza i tentativi di mediazione a guerra in corso, il profilo dei soggetti mediatori, tenendo conto anche dei loro interessi più o meno legittimi ma reali e ineludibili. La sensazione che se ne ricava è che la guerra si potesse prima evitare, poi far cessare nell’immediatezza, e che invece nel suo prolungamento ci sia la riduzione degli spazi di mediazione e l’allontanamento ad libitum di una prospettiva di pace. Il quinto capitolo parla delle condanne approvate dagli organismi internazionali e delle sanzioni comminate verso la Russia e verso Putin, in un’escalation giuridica che ha affiancato l’escalation militare. Il sesto capitolo si concentra sugli schieramenti che si sono creati e si stanno consolidando attorno al conflitto russo-ucraino; quello che si profila non pare essere un nuovo bipolarismo, bensì una diversa articolazione di aree del mondo che, se riconosciuta trasversalmente, potrebbe rappresentare un’opportunità di convivenza pacifica; se, altrimenti, vista nell’ottica di schieramenti nemici in competizione tra loro, sarebbe foriera di un futuro strutturalmente instabile e pericoloso. Le informazioni raccolte in questi capitoli, con le dichiarazioni riportate tra virgolette, sono state estrapolate dalla lettura compulsiva che quotidianamente ho esercitato sulle principali testate giornalistiche nazionali e internazionali, sui comunicati stampa ufficiali e i lanci di agenzia.
Il settimo capitolo analizza le narrazioni dei due poli che si stanno confrontando in Occidente: quello a sostegno della guerra a oltranza per difendere i valori della democrazia e dell’ordine internazionale liberale, e quello che attribuisce forti responsabilità agli USA e all’Occidente per la situazione di crisi russo-ucraina, e in forza di questo ritengono che sia nel potere di USA e Occidente la capacità di mettere fine alla guerra. Infine aggiungo una prospettiva terza, suddivisa in due varianti: una storico-filosofica, l’altra femminista. Entrambe allargano lo sguardo del conflitto e adottano un punto di vista etico-politico, scevro dagli interessi geopolitici ed economici degli Stati e aperto alle persone in carne ed ossa.
La seconda parte ripropone, in una sorta di diario di guerra, gli scritti e gli interventi da me proposti a commento di momenti particolarmente importanti per il conflitto. Sono già usciti in riviste online: per la maggior parte sono stati ospitati da «SoloRiformisti», che ringrazio sentitamente perché la mia posizione non è quella sostenuta dalla linea editoriale della rivista (il potere della parola si afferma soprattutto grazie alla reciproca legittimazione di opinioni anche molto diverse); uno scritto, più ampio e articolato, costellato di richiami di pensiero filosofico e di teoria politica, è stato pubblicato ne «Il Senso della Repubblica», altra importante piattaforma di dibattito pubblico, ispirata da un importante intento di confronto e divulgazione delle idee. Credo che riprodurre tutti questi interventi insieme e nella loro successione diano il senso del filo rosso che muove la mia riflessione: esso parte dall’ansiosa volontà di capire che cosa non ha funzionato negli accordi di Minsk, analizza i momenti di maggior pericolo per un’escalation incontrollabile, e prosegue nella spasmodica ricerca di segnali di apertura al negoziato, che possano fermare questa assurda guerra «prima della battaglia finale». Il filo rosso che li lega è l’instancabile ricerca della pace.
Ho poi, purtroppo, dovuto aggiungere un’ “altra parte”, dedicata alla recrudescenza del conflitto arabo-israeliano: un conflitto secolare, di cui ci dimentichiamo sempre, a meno che non avvengano orrori come quello perpetrato da Hamas il 7 ottobre 2023, con il raid terroristico sul rave organizzato a Tel Aviv, a ridosso del confine, e la pioggia di missili che hanno colpito la popolazione civile israeliana. D’un colpo la guerra in Ucraina è stata rimossa dai palinsesti giornalistici e televisivi, per sostituirla con la guerra dichiarata da Israele a Hamas. Ma così come in Palestina le violenze non si erano mai fermate almeno dal 2008, anno in cui è mancata l’ultima possibilità di un accordo tra Israele e Autorità Nazionale Palestinese, in Ucraina si continua a combattere e a morire. Senza fine.
Alcune avvertenze preliminari.
Poiché la scelta è stata quella di lavorare sulla dimensione della parola, della comunicazione e del confronto verbale, come mezzi della diplomazia alternativi all’uso delle armi e della violenza, nella parte ricostruttiva il lettore non troverà analisi e commenti sulle fasi militari della guerra né su altri eventi che hanno segnato in maniera significativa l’andamento del conflitto. Mi riferisco alle avanzate e alle ritirate russe, ai crimini di guerra su cui sta lavorando la Commissione Indipendente Internazionale d’inchiesta sull’Ucraina[7], alla controffensiva ucraina, all’escalation militare, agli “incidenti” su gasdotti, dighe e altre infrastrutture strategiche, all’attentato intentato contro Putin e alla rivolta delle milizie Wagner di Evgenij Prigožin sedata in appena 24 ore. Sono consapevole della parzialità di questo approccio e delle critiche legittime che possono essere mosse contro, ma gli approfondimenti su queste dimensioni del conflitto esulano dai miei interessi e dalle mie capacità di analisi, che lascio volentieri agli analisti internazionali, agli studiosi di strategie militari e ai cultori della geopolitica. I lettori possono rivolgersi a loro per cercare di capire cosa sta succedendo “sul campo”.
In secondo luogo, e conseguentemente a quanto scritto sopra, questo non è un libro sulla guerra in Ucraina volto a individuare le cause e ad attribuire le responsabilità meritevoli di giudizio e sanzione. Anche questo è un esercizio che lascio a chi ne sa molto più di me, a chi da anni segue le dinamiche politiche dei territori della ex Unione Sovietica, a chi sul posto ha lavorato, incontrato persone e raccolto informazioni di prima mano[8]. In questi mesi ho cercato di leggere tutto e tutti, con il desiderio di capire e conoscere, ma anche qui quel che mi interessa non è stabilire chi ha torto e chi ragione; non per ignavia o cerchiobottismo (l’accusa che viene rivolta sempre all’approccio dell’analisi neutra), ma perché penso che ci sia bisogno talora anche di sospendere il giudizio per guardare oltre.
Infine, da chi ha letto in anticipo queste pagine sono venute critiche opposte, speculari alle posizioni rappresentate. Chi sta dalla parte dell’Ucraina senza se e senza ma, contesta la prospettiva non giudicante e l’idealismo soggiacente alla fiducia nel potere della parola di fronte alla realtà della violenza; è l’argomento secondo il quale la diplomazia non può far niente davanti a un aggressore, ma si può solo abbatterlo. Ho cercato di spiegare altrove che oggi, dopo due guerre mondiali e l’evoluzione del diritto internazionale, ci deve essere sempre lo spazio per la diplomazia e per la mediazione[9]. Chi invece pensa che l’Occidente abbia le sue responsabilità in questa guerra, ha definito la mia una posizione filo-atlantista e filo-occidentale perché omette di ricordare le spedizioni anti-russe nel Donbass dal 2008 in poi e il ruolo degli USA nella rivolta di Euromaidan. Ho già spiegato prima i motivi per i quali ho ristretto l’analisi alla fase degli accordi di Minsk; non ho il timore di fornire giustificazioni a un atto di aggressione che non può avere giustificazioni, ma ho semplicemente il desiderio di capire come mai quegli accordi non sono stati sufficientemente presidiati, essendo stati l’unico tentativo reale di porre fine a un conflitto che da anni contrapponeva russi e ucraini.
Devo comunque ringraziare chi ha mosso queste critiche perché mi ha fatto ulteriormente riflettere su un punto che è giusto qui precisare, anche per me. Forse non è appropriato attribuirmi la patente di filo-occidentale, ma sicuramente quella di occidentale; non è una distinzione sottile, bensì decisiva. Sono occidentale per nascita, formazione e cultura, e situarmi consapevolmente in questa parte di mondo non significa rivendicare valori e istanze da difendere, ma parlare proprio a questa parte di mondo che sta perdendo la capacità di pensarsi criticamente in rapporto all’altro e di credere nella politica come relazione tra diversi.
Ecco perché ho scritto questo libro – l’ho capito meglio ora – per parlare all’Occidente, con gli occhi dell’Occidente, e dare alla politica un’altra chance.
[1] Si legga a questo proposito G. Breccia e A. Frediani, Epidemie e guerre che hanno cambiato il corso della storia, Newton Compton, Roma 2020.
[2] H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1983.
[3] K. von Clausewitz, Della guerra, Mondadori, Milano 1982.
[4] H. Arendt, Teoria del giudizio politico. Lezioni sulla filosofia politica di Kant, Il Melangolo, Genova 2005.
[5] C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, Il Mulino, Bologna 1972.
[6] E. Krippendorff, Politica internazionale. Storia e teoria, Liguori, Napoli 1991; Id., Critica della politica estera, Fazi Editore, Lucca 2004.
[7] https://www.ohchr.org/en/hr-bodies/hrc/iicihr-ukraine/index
[8] In questo anno non sono mancati i contributi in questo senso. Cito solo per economia di spazio Igort, Quaderni ucraini. Le radici del conflitto, Oblomov Edizioni, Bologna 2021; N. Scavo, Kiev, Garzanti, Milano 2022; T. Capuozzo, Giorni di guerra. Russia e Ucraina, il mondo a pezzi, Signs Publishing, Milano 2022; M. Zola (a cura di), Ucraina. Alle radici della guerra. Tutti i perché dell’invasione russa, Paesi Edizioni, Roma 2022; G. Cella, Storia e geopolitica della crisi ucraina. Dalla Rus’ di Kiev ad oggi, Carocci, Roma 2022; F. Bettanin, La Russia, l’Ucraina e la guerra in Europa. Storia e scenari, Donzelli, Roma 2022; F. Strazzara, Frontiera Ucraina, Il Mulino, Bologna 2022; S. Minolfi, Le origini della guerra russo-ucraina. La crisi della globalizzazione e il ritorno della competizione, Ist. Italiano di Studi Filosofici, Napoli 2023; G. Ferrara, La resa dei conti. Come e perché si sta trasformando l’ordine mondiale. Le vere ragioni della guerra in Ucraina. Lo scontro globale USA-Cina, Edizioni Il Punto d’Incontro, Vicenza 2023.
[9] D. Belliti, Il Terzo Assente. Problemi e rischi della perdita della neutralità statale e sovranazionale, «Scienza e Pace», 2022, XIII, 2, pp. 177-195.
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