Nella posizione degli intellettuali organici, dei compagni di strada e nell’atteggiamento del PCI verso Arcipelago Gulag c’era il rifiuto di aprire gli occhi sulla realtà perché avrebbe significato ammettere il fallimento della rivoluzione bolscevica e quindi della ragion d’essere che aveva portato alla nascita dei partiti comunisti? Perché, come aveva scritto Fortini, se tutto questo fosse vero “bisognerebbe concludere che la rivoluzione socialista è fallita […] la nostra vita è stata inutile».?
Il rifiuto di leggere “Arcipelago Gulag” e di “aprire gli occhi” fu largamente e lungamente condiviso. Il primo tomo nel 1974 ebbe scarse recensioni e una modesta diffusione tanto che la Mondadori pubblicò a fatica – tardivamente e in tiratura molto limitata – l’ultimo volume nel 1978.
Per comprendere la freddezza di fronte alla documentazione di Solzhenitsyn va tenuto presente che negli anni Settanta l’intero tema del “Dissenso” nei paesi comunisti era osteggiato a cominciare dalla “Primavera di Praga” del ’68 non solo dal Pci e dalla sinistra extraparlamentare ma anche dall’establishment economico fino alla Casa Bianca.
Il segretario del Pci, Luigi Longo, il 9 maggio 1968 (proprio al ritorno da Praga dove era stato a colloquio con Dubcek) incontra un gruppo di “contestatori”. Il loro leader è Oreste Scalzone che attacca il “nuovo corso” cecoslovacco in quanto “liberale”. E Longo lo rassicura che il Pci “per quanto riguarda la Cecoslovacchia” è d’accordo con lui: “Il problema – dichiara Luigi Longo – è battere posizioni di gruppi che aspirerebbero a un ritorno al regime borghese”. Il Pci che aveva espresso “riprovazione” per l’invasione della Cecoslovacchia nell’agosto del ’68, nel ‘69 rifiuta l’accesso alle Botteghe Oscure a Jiri Pelikan, già collaboratore di Dubcek e direttore della tv di Praga, esule a Roma che voleva contattare il Pci. Salvo “Il Manifesto” (che però esalta le sanguinarie dittature di Fidel Castro e di Mao) è tutta la galassia sessantottina negli anni Settanta – da “Potere operaio” a “Lotta Continua” – a voltare le spalle ai dissidenti dell’Est come documenta la ricerca di Paolo Sensini, “I due Sessantotto”, promossa da Ripa di Meana e pubblicata nel trentennale della “Biennale del Dissenso” da “Critica Sociale”.
A ciò si aggiunse – nonostante si fosse in piena “Guerra fredda” – anche una ostilità tra gli stessi antagonisti dell’Urss. Negli anni Settanta prevaleva cioè lo scetticismo verso l’antisovietismo. Alla Casa Bianca Henry Kissinger – che si credeva Metternich a Vienna – coltivava la politica dell’”ordine mondiale” basata sulla convinzione che ormai l’Urss fosse una realtà definitiva e irreversibile. Quindi su indicazione di Kissinger il presidente Usa, Gerald Ford, rifiuta d’incontrare l’autore di “Arcipelago Gulag” giunto esule negli Stati Uniti. Lo scrittore Tom Wolfe (che coniò la definizione “radical chic”) in un articolo del 1976 intitolato “Incolpare il messaggero” scrisse: “Il giro statunitense di Solzhenitsyn nel ’75 fu come un immenso corteo funebre che nessuno aveva voglia di vedere”. “Il declino del coraggio nello strato dirigente e nello strato intellettuale dominante – commentò Solzhenitsyn nel 1978 – è nell’Occidente d’oggi forse ciò che più colpisce uno sguardo straniero”.
Negli anni Settanta il “chiudere gli occhi” era un atteggiamento molto diffuso nell’”Italia dei movimenti”. Per l’establishment economico che condivideva la tesi kissingeriana a cominciare dalla Fiat di Agnelli l’antisovietismo era considerato con fastidio come un “disturbo”. In Italia l’anticomunismo democratico fu un fenomeno dal perimetro molto ristretto. L’attenzione – gli studi e la solidarietà – verso il tema dei gulag e della persecuzione dei dissidenti nei paesi comunisti appassionava solo alcune élites di liberalsocialisti e di cattolici democratici.
Quanto pesò il differente impegno a sostegno dei dissidenti nell’Unione sovietica nei rapporti tempestosi tra il PCI di Berlinguer ed il PSI di Craxi? Si pensi alla vicenda della Biennale del dissenso a Venezia del 1977 fortemente voluta dai socialisti, contro cui tuonavano i sovietici con gli sbandamenti evidenti nel PCI che si salvò promuovendo tardivamente un convegno riparatore a Firenze promosso dal Sindaco Gabbugiani
In verità “l’impegno a sostegno dei dissidenti nell’Urss” da parte del Pci fu insignificante. Basti pensare all’incontro Pci-Pcus nell’ottobre 1978; quando Suslov lamenta le “campagne reazionarie” sui dissidenti, Berlinguer replica vantandosi: “Per Sharansky noi però di manifestazioni non ne abbiamo fatte”. A Firenze il convegno promosso da Gabbuggiani non era del Pci, ma dell’amministrazione comunale dove il Psi era molto impegnato sul tema sia con gli autonomisti di Lagorio sia con la sinistra di Valdo Spini e di Giorgio Morales che era in Giunta. L’iniziativa di Gabbuggiani fu importante tanto che suscitò una nota di protesta dell’ambasciata sovietica.
Il Pci condannò la “Biennale del Dissenso” non solo per pressione sovietica, ma con convinzione autonoma. L’intera intellettualità filocomunista si impegnò contro l’iniziativa presa dal presidente Meana dopo le manifestazioni da lui dedicate negli anni precedenti all’opposizione in Spagna e in Cile. Lo storico dell’arte Argan, sindaco comunista di Roma, accusò Meana di “Solzhenitsyn-parade”. Il problema fu che l’ostilità alla “Biennale del Dissenso” non fu solo del Pci, ma di ampia portata. Alla Camera un voto Pci-Dc-Pri blocca i finanziamenti alla Biennale. Il repubblicano Visentini nega la collaborazione della Fondazione Cini e a lui si affianca il rettore di Ca’ Foscari. Seguono il rifiuto di fornire i materiali di archivio da parte di varie istituzioni: dalla Rai a Casa Ricordi e alla Rizzoli (con i vertici della P2).
E questo rifiuto a vedere la realtà sovietica per quello che era non persiste ancora oggi nelle resistenze a classificarla tra i totalitarismi del secolo, che porta al rifiuto del concetto di totalitarismo? In fondo i sovietici sono compagni che sbagliano
Il fatto è – come sottolineò Lucio Colletti nel decennale della caduta del Muro di Berlino – che all’indomani del crollo del comunismo in Italia i partiti democratici finirono sul banco degli imputati e i comunisti messi sul piedistallo degli innocenti quando non dei giudici. Ne è scaturita una biblioteca di testi scolastici e di divulgazione massmediatica che lo storico Giovanni Belardelli ha descritto come “dipietrismo storiografico”. Non solo la storia del comunismo italiano è stata quindi idealizzata, ma siamo al punto che – come sottolineò lo storico del “Grande terrore”, Robert Conquest – l’Italia è diventata la patria della ‘stalinophilia’, termine da lui coniato per come le tesi giustificazioniste su Stalin di storici quali Luciano Canfora vengono diffuse con favore dal principale quotidiano italiano e pubblicate da autorevoli case editrici mentre all’estero – in Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti – sono rifiutate e bollate come “negazioniste”. Tra “stalinophilia” e “dipietrismo storiografico” che hanno autorità accademica è abbastanza diffusa una versione “buonista” del comunismo italiano e di rifiuto del giudizio storico che dette sin dall’inizio Giacomo Matteotti: l’Urss come versione di sinistra del totalitarismo di cui il fascismo era la versione di destra.
Cosa si può dire della posizione ufficiale del PCI riassunta nell’articolo di Giorgio Napolitano ed ovviamente avallata da Berlinguer e dal gruppo dirigente nel suo complesso?
Il caso “Arcipelago Gulag” esplode all’inizio del 1974 proprio quando Berlinguer è a Bruxelles in riunione con i rappresentanti degli altri Pc europei. Alla conferenza stampa conclusiva, incalzato sull’argomento egli è sfuggente. Al ritorno in febbraio Berlinguer manda allo scoperto Napolitano. La prosa è molto ipocrita. Si ricorre all’eufemismo “grave misura restrittiva dei diritti” in riferimento ad arresto ed espulsione dello scrittore mentre la segretaria sottoposta a interrogatori si suicida. Quindi si difende l’operato sovietico rimproverando a Solzhenitsyn “un atteggiamento di sfida allo Stato sovietico e alle sue leggi” per concludere: “Solo commentatori faziosi e sciocchi possono prescindere dal punto di rottura cui Solzhenitsyn aveva portato la situazione”. Perché Berlinguer e Napolitano lo fanno? Non è perché “servi di Mosca”, ma per convinzioni profonde. Per Berlinguer, che pur ha il merito di aver portato il Pci al massimo della distanza da Mosca, il legame con l’Urss e il giudizio positivo sul regime sovietico sono fondamentali per due ragioni: 1. l’Urss è la prova che c’è la possibilità concreta di un’alternativa al sistema capitalista; 2. “l’Unione sovietica rappresenta – come dirà proprio al C.C. del gennaio 1982 dopo lo ‘strappo’ – un contrappeso alla forza e all’aggressività dell’imperialismo americano”. E’ un filosovietismo che nasce da una fede politica che porta lo stesso Berlinguer a giustificare persino lo stalinismo ancora perdurante nel Pci. Ad Alberto Moravia che lo intervista dopo che i portuali comunisti di Genova avevano rifiutato di partecipare allo sciopero di protesta per il colpo di stato in Polonia, Berlinguer risponde: “Lei dice ‘base staliniana’, io dico base fornita di una robusta coscienza anticapitalista, bussola e stimolo della nostra elaborazione e della nostra condotta pratica”.
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