E’ vero che non si voleva sapere quel che pure si sapeva (“unknow the known” secondo Peter Burke in “L’ignoranza”)? Risponde Franco Camarlinghi:
Nella posizione degli intellettuali organici, dei compagni di strada e nell’atteggiamento del PCI verso Arcipelago Gulag c’era il rifiuto di aprire gli occhi sulla realtà perché avrebbe significato ammettere il fallimento della rivoluzione bolscevica e quindi della ragion d’essere che aveva portato alla nascita dei partiti comunisti? Perché, come aveva scritto Fortini, se tutto questo fosse vero “bisognerebbe concludere che la rivoluzione socialista è fallita […] la nostra vita è stata inutile».?
In realtà la pubblicazione in Italia di Arcipelago Gulag non suscitò una reazione di un qualche rilievo nella base del Pci, in quel momento proteso verso traguardi elettorali clamorosi, come avvenne nel’75 e nel ’76.
Non ricordo, ad esempio, richieste di discussione degne di una qualche memoria da parte delle sezioni del partito che a quel tempo rappresentavano ancora una forza organizzata di grande vitalità a Firenze città e nella relativa provincia.
L’emozione (se ci fu e che in ogni modo fu prevalentemente costretta) riguardò il gruppo dirigente nazionale e gli intellettuali più o meno organici. In periferia la questione appartenne sostanzialmente a una riflessione individuale che nell’opera di Solzenicyn riconobbe il punto di arrivo di tutto ciò che si era potuto sapere sul fallimento del socialismo reale.
Arcipelago Gulag andava oltre: indicava l’origine e la responsabilità di quella tragedia prima di Stalin, coinvolgeva Lenin e le radici teoriche stesse del comunismo.
Inutile indugiare su questi aspetti e sulle prese di posizione degli intellettuali più in vista o degli articoli commissionati a Giorgio Napolitano.
Si potrebbe dire che su tutto conviene stendere un velo, se non fosse che le ultime generazioni potrebbero non sapere nemmeno di che si tratta.
Visto però che su internet si trova tutto, il consiglio per chi voglia unirsi alla memoria di chi allora c’era è di dare un’occhiata a quelle vicende: ormai sono storia e proprio per questo indispensabili per capire anche il tempo attuale.
In sintesi, si può dire che la classe dirigente nazionale del Pc non poteva che defilarsi da Solzenicyn, altrimenti avrebbe dovuto dichiarare il proprio fallimento insieme a quello dei compagni sovietici e questo fu il motivo principale della reazione di allora, condivisa da molti degli intellettuali cosiddetti organici.
L’una e gli altri avrebbero potuto applicare a loro stessi le parole di Franco Fortini citate nella domanda e in qualche caso, romanticamente, lo fecero, ma in molti di più nascosero un motivo più concreto: la conservazione di ruoli di potere e di convenienza che non sarebbero stati scalfiti neanche nei decenni successivi al crollo del Muro di Berlino.
Si parla dell’Italia e bisogna ricordare che, se quanto sopra distinse il Pci da altri partiti di sinistra in Europa, per quanto riguarda gli avversari di allora, in primis la Dc (per dirla con Andreotti e non solo), detratte le affermazioni doverosamente irrinunciabili, la “comprensione umana” non fu di sicuro fatta mancare: d’altronde avanzava il compromesso storico!
Il problema fu diverso con il Psi di Craxi, dopo il suo avvento alla segreteria nel ’76.
Quanto pesò il differente impegno a sostegno dei dissidenti nell’Unione sovietica nei rapporti tempestosi tra il PCI di Berlinguer ed il PSI di Craxi? Si pensi alla vicenda della Biennale del dissenso a Venezia del 1977 fortemente voluta dai socialisti, contro cui tuonavano i sovietici con gli sbandamenti evidenti nel PCI che si salvò promuovendo tardivamente un convegno riparatore a Firenze promosso dal Sindaco Gabbugiani
Non so giudicare quanto in particolare pesasse la questione dei dissidenti nel rapporto tempestoso fra Berlinguer e Craxi: di sicuro influì, ma all’interno di un problema più generale.
Craxi intese affrontare la competizione a sinistra mettendo in discussione le eredità culturali che derivavano dalla stessa scissione del ’21: basti ricordare la provocazione che fece epoca con il saggio sull’Espresso del 1978, con al centro Proudhon.
Berlinguer poteva dire che dalla parte della Nato si stava più sicuri che nel campo avversario, che la spinta propulsiva del ‘17 si era esaurita, ma non poteva arrivare a far crollare le statue di Marx e di Lenin.
Lo stesso succedeva con il giudizio sull’Urss: esaurita la spinta dell’Ottobre, ma oltre non si poteva andare e quindi…l’articolo di Napolitano del ’74 restava valido anche per il dopo.
L’iniziativa sul dissenso era dei socialisti e di Craxi, con il “morbido” appoggio della Dc.
Una parte del quadro dirigente centrale e diffuso del Pci era d’accordo per il sostegno al dissenso, ma la maggioranza dell’apparato no (per quanto ne sia rimasto, secondo me, anche oggi non ci sarebbe da stupirsi se fosse più o meno uguale a cinquant’anni fa).
In realtà non fu il Pci a promuovere il convegno sul dissenso di Firenze: la proposta fu del Psi, con il sostegno dei gruppi della Dc e dei laici.
Il Pc fiorentino, dopo esitazioni e anche contrasti locali e romani, aderì alla promozione del convegno sostenuto, peraltro, fino dall’inizio da Elio Gabbuggiani e da una parte del gruppo consiliare in Palazzo Vecchio.
Alla fine, i gestori del Convegno furono il Sindaco e la giunta e, malgrado i mugugni degli ortodossi del Pci, quest’ultimo apparve il protagonista dell’iniziativa.
Tutto, però, finì lì: mancavano pochi anni e il Muro di Berlino sarebbe crollato…
E questo rifiuto a vedere la realtà sovietica per quello che era non persiste ancora oggi nelle resistenze a classificarla tra i totalitarismi del secolo, che porta al rifiuto del concetto di totalitarismo? In fondo i sovietici sono compagni che sbagliano
La domanda, se si toglie il punto interrogativo, è già la risposta a cui non c’è da aggiungere nulla, ammenoché non si voglia fare un’analisi sulla situazione politica attuale.
Cosa si può dire della posizione ufficiale del PCI riassunta nell’articolo di Giorgio Napolitano ed ovviamente avallata da Berlinguer e dal gruppo dirigente nel suo complesso?
Giorgio Napolitano era un uomo indubitabilmente colto e quindi sapeva benissimo cos’era il nicodemismo, di cui in più di un momento fu un esponente di rilievo nel Pci.
Personalmente ritengo, anche per ricordi personali di frequentazione negli anni ’70, che fosse assolutamente consapevole dell’agonia del sistema sovietico e della insostenibile pesantezza di un regime a dir poco autoritario, ma non poteva dirlo se non nell’inaccessibile segretezza delle discussioni al vertice del partito, come via via si apprende a distanza di decenni dai verbali allora secretati.
All’esterno aderiva al pensiero ufficiale e, ironia della sorte, toccava a lui fare la figura del cinico ortodosso, come gli era successo tanti anni prima all’VIII Congresso del Pci a fianco di Togliatti contro Giolitti per giustificare e sostenere i carri armati sovietici per le strade di Budapest.
Fino al 9 novembre dell’89 funzionava così anche nel più grande partito comunista dell’Occidente: si chiamava centralismo democratico o qualcosa di simile…
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