La mia circospezione nei confronti degli studi impatto risale ai colpi di coda del lungo dibattuto sul controverso rapporto The Third London Airport, con l’eroica analisi costi benefici effettuata tra il 1968 e il 1970 per un costo (astronomico per i tempi!) di 1.000.000 di sterline. Questo non mi ha impedito di apprezzare numerosi studi di impatto, in particolare quelli degli enti non profit. A causa dei pregiudizi personali sui giochi d’azzardo sono rimasto perplesso, invece, sfogliando le cronache che riassumevano la ricerca, presumo metodologicamente inappuntabile, sugli apparecchi da gioco realizzata nel 2022 da Cgia Mestre in collaborazione con il Centro Studi As.tro. Poco prima il Consiglio di Stato si era pronunciato sulla legittimità di un regolamento comunale che vietava l’installazione di questi apparecchi (video poker, ecc) a una distanza inferiore a 500 metri da luoghi sensibili come le scuole. La ricerca evidenziava che le imprese con attività prevalente nel settore giochi erano circa 11.700 con poco meno di 30.000 addetti. All’interno di questo gruppo, quelle che svolgevano «Gestione di apparecchi che consentono vincite in denaro» erano 3.900 con 8.800 addetti. Nelle conclusioni, l’occupazione del settore AWP (amusement with price dove si giocano monete) e VLT (le videolottery che accettanobanconote) saliva, incluso l’indotto, a 48.000 unità, in pratica sei volte il numero diretto. Immagino che studi altrettanto rigorosi siano stati dedicati al settore del tabacco, presentando conclusioni con numeri forse ancora più sorprendenti.
Ovviamente questi lavori sono legittimi ma, oltre ai rilievi di carattere morale sottostanti, restano opinabili come tutti gli studi dove si cerca di colmare la carenza di dati puntuali con metodologie approssimative come i coefficienti delle matrici input-output o altri ingegnosi algoritmi di cui in alcuni casi va apprezzata la creatività. Pensiamo ai numerosi report di impatto commissionati dai promotori di grandi eventi come expo, olimpiadi e festival o alle analisi costi benefici di investimenti in ferrovie e autostrade e dai quali puntualmente risultano lusinghieri moltiplicatori di valore aggiunto non sempre convincenti. Nessuno si illude che si possano quantificare con assoluta precisione i fenomeni osservati ma di fronte al bivio tra pretese di piena obbiettività e totale mancanza di solidi punti di riferimento si possono percorrere molte strade.
Emblematico in questo senso lo strascico di polemiche e di cifre discordanti in merito all’impatto macroeconomico dei bonus edilizi introdotti nel 2020. La spesa indotta dal 110% per gli anni 2021 e 2022, ovvero gli investimenti aggiuntivi nel settore costruzioni e, per le interconnessioni settoriali, in tutti gli altri settori, è stata di 96 miliardi di euro. A tale spesa corrisponde, secondo uno studio dell’Ordine dei dottori commercialisti, un costo lordo per lo Stato pari a poco più di 97 miliardi di euro con un incremento stimato di prodotto interno lordo (Pil) nei prossimi 5 anni di quasi 91 miliardi di euro e di gettito fiscale di circa 37 miliardi di euro. Il “costo netto” del 110% per lo Stato, pertanto, è stimato in 60 miliardi di euro, importo nettamente inferiore all’incremento del Pil. Anche il Censis ha stimato che i 55 miliardi di euro di investimenti per il super bonus certificati dall’Enea tra agosto 2020 e ottobre 2022 avrebbero attivato un valore della produzione nella filiera delle costruzioni e dei servizi tecnici connessi pari a 79,7 miliardi di euro (effetto diretto), cui si sommano 36 miliardi di euro di produzione attivata in altri settori del sistema economico connesso alle componenti dell’indotto (effetto indiretto), per un totale di almeno 115 miliardi di euro. Per inciso, nel riportare queste e altre conclusioni spesso le agenzie giornalistiche non si preoccupano di chiarire se i dati riguardano il volume di affari o il valore aggiunto. Ancora, a fronte degli 88 miliardi di spesa sostenuti per il superbonus, Nomisma stima una produzione di valore economico –diretto, indiretto e indotto– superiore ai 200 miliardi di euro. L’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica replica che, quando si analizzano gli effetti degli incentivi, si dovrebbe costruire uno scenario controfattuale perché parte degli investimenti che sono stati finanziati con i vari bonus sarebbe stata fatta comunque. Soprattutto è stato opportunamente osservato che l’impatto dei bonus, ai quali nessuno disconosce un effetto “spinta”, andrebbe perlomeno messo a confronto con quello che si sarebbe ottenuto con incentivi dello stesso volume in altri settori come, ad esempio, la salute, l’istruzione o le metropolitane. Il confronto, è vero, ricorrerebbe sempre a stime di impatto, ma non per questo verrebbe meno la sua preziosa funzione segnaletica ai fini delle politiche pubbliche.
Venendo a casi più vicini, i valori numerici per ovvie ragioni scendono ma la vis polemica forse è ancora più accorata. Per tutti valga il marmo apuano al centro di perenni schermaglie tra enti locali, associazioni imprenditoriali, sindacati e ambientalisti. A fine novembre, a distanza di pochi gg., due quotidiani hanno riportato che il settore lapideo di quel territorio (5.000 addetti diretti e 3.000 indiretti, stime anche queste non da tutti condivise) “vale il 24% del PIL di Massa Carrara”. Ne consegue che il valore aggiunto generato da ciascuno degli 8.000 addetti al settore, ovvero il 10 % del totale provinciale, dovrebbe essere pari a due, tre volte quella media del totale degli altri lavoratori del territorio. Il dato verosimilmente sarebbe eccessivo anche se riferito al solo territorio del Comune di Carrara. Più di un dubbio suscita anche il trafiletto uscito quale giorno dopo: “il valore del marmo di Carrara rappresenta circa il 4% del Pil dell’intera Regione Toscana”. Giusto per richiamare l’ordine di grandezza delle poste in gioco, il Pil della Toscana (mal contato) è pari a 110/120 miliardi di euro. Il 4% fa 4,5 miliardi. Si stima che il volume di affari (da non confondere con il Valore Aggiunto!) del settore lapideo di tutta la Toscana si fermi a 1,5 miliardi di euro al netto di errori e omissioni riconducibili al modo in cui i media citano dati senza riportare l’anno, i confini settoriali o geografici e le categorie statistiche ai quali si riferiscono. Fermo restando che qualsiasi prospettiva di sostenibilità deve fare rima con misurabilità, l’advocay del marmo dovrebbe fare leva sugli straordinari fattori identitari (qualitativi) più che su improbabili curvature numeriche. Nonostante il biglietto da visita che rievoca accrocchi vintage, il neoistituito “Osservatorio dei prezzi del marmo” voluto dal Comune di Carrara con il concorso della Camera di Commercio e del Consorzio Zona Industriale, cercherà di misurare “l’impatto diretto, indiretto e indotto” della filiera lapidea ma non sarà facile porre fine alle polemiche sui numeri.
L’aspro tifo da stadio che caratterizza il confronto tra i diversi stakeholder, in questo come nel caso dei bonus e delle valutazioni di impatto sulle nuove infrastrutture, sarebbe più sereno in presenza di codici di autodisciplina ai quali gli istituti di ricerca dovrebbero attenersi e di maggiore attenzione verso il modo in cui i risultati degli studi di impatto sono diffusi sui media. Il bello della ricerca consiste nel saper leggere i fenomeni in una prospettiva diversa e non è certo il caso di imbrigliare la creatività degli istituti. La comunità scientifica, tuttavia, potrebbe definire alcuni standard metodologici di base e per i dossier più “caldi”, come già succede per le etichettature ecologiche o i rating ESG, prevedere certificazioni indipendenti di parte terza. In loro assenza, i media farebbero bene a segnalarlo.
Lascia un commento