Quale è il compito cui è chiamato, per legge e per norme deontologiche, l’avvocato della difesa nel processo penale?
Prima di parlare di doveri, evocati dal riferimento alle “norme deontologiche”, dovremmo innanzi tutto ricordarci dei diritti. La nostra Costituzione, ad esempio, stabilisce perentoriamente all’art. 24 che «La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento», usando un’espressione (“inviolabile”) che compare solo altre due volte nel testo costituzionale, a proposito della libertà personale e del domicilio. L’art. 27, dal canto suo, sancisce chiaramente il dirittodi ogni imputato a non essere «considerato colpevole sino alla condanna definitiva», mentre l’art. 111 stabilisce il suo diritto a che codesta “colpevolezza” venga accertata mediante un “giusto processo”, regolato dai principi del contraddittorio e della terzietà del giudice rispetto alle parti. Dentro questa cornice fondamentale si collocano, fra gli altri, anche i doveri dell’avvocato, che si possono riassumere nel dover assicurare la miglior difesa possibile e lecita al proprio assistito. Un obbligo direttamente discendente dalla legge, oltre che dalle norme deontologiche di categoria: quella stessa legge che impone al pubblico ministero di perseguire e al giudice di giudicare, se è concessa la pedanteria.
Nel corso del processo di cui si tratta, la difesa ha posto alla parte lesa domande su particolari dei suoi atti e comportamenti che hanno suscitato un’ondata di critiche perché ritenute lesive della sua intimità e riservatezza. Come giudichi queste domande e le critiche che hanno ricevuto?
Pur facendo parte degli “addetti ai lavori”, o forse proprio per questo, commentare giudizi in corso è uno sport nazionale che non mi appassiona. So per esperienza professionale che conoscere un processo significa conoscerne tutti gli atti (le famose “carte”), mentre assai raramente i resoconti giornalistici riescono a coniugare completezza e approfondimento, e ciò anche per ragioni oggettive di spazio e di tempo (a parte casi di ignoranza o faziosità). A volte, un particolare apparentemente insignificante e sfuggito alle cronache può avere una rilevanza decisiva sull’esito di un processo. Inoltre, spesso vi sono complessi aspetti tecnici che possono essere compresi appieno solo da una ristretta cerchia di “chierici”. Un’idea (più o meno labile) di “giustizia” possiamo avercela tutti, ma a conoscere la legge, specialmente quella processuale, sono in pochi. Ciò detto, senza voler entrare nel merito del processo in questione e facendo un ragionamento più generale, essendomi occupato a volte di difendere imputati in processi di violenza sessuale, mi sento di dire che mai come in questo ambito ogni caso fa storia a sé. Si tratta di vicende spesso delicate e dolorose, anche per gli stessi imputati nei casi in cui siano innocenti. Per queste ragioni, non è facile stabilire in astratto e una volta per tutte dove si collochi una “linea di lesività” non oltrepassabile. Ci sono, certo, delle regole processuali, scritte nel codice di procedura penale e, prima ancora, nella Costituzione.
Quali sono, in sintesi, queste regole?
L’art. 111 della Costituzione, prima citato, stabilisce che alla persona accusata di un reato debba essere garantita «la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore». In altre parole, se vengo accusato da qualcuno, ho il diritto (costituzionale!) di controinterrogare quella persona davanti ad un giudice oltre che addurre elementi a discarico. La cosa fondamentale da tener presente è che proprio da questa somma di attività processuali (esame e controesame in contraddittorio e sotto il controllo del giudice) “sorge” la prova di un certo fatto. Prima di tale momento si può parlare, tutt’al più, di “elementi di prova”, ma non (ancora) di prova in senso tecnico. Insomma, le dichiarazioni di una persona messe a verbale dalla polizia o dal pubblico ministero non sono “prova” ma lo diventeranno, semmai, soltanto dopo che in un processo quella persona sarà stata interrogata e controinterrogata dalle parti di quel processo. In base a questi principi, il codice di procedura detta una serie di regole specifiche, allo scopo di contemperare due esigenze diverse: da un lato, garantire il pieno esercizio del diritto di difesa dell’imputato e delle altre parti processuali; dall’altro, preservare la dignità della persona offesa, evitando che venga gettato un discredito gratuito e immotivato. Inutile dire che queste due necessità si contrappongano in misura maggiore nei processi di violenza sessuale.
Come vengono contemperate dalla legge le due esigenze?
Il codice di procedura, all’art. 472 comma 3-bis, prevede che nei processi di maggiore delicatezza (ad esempio violenza sessuale, prostituzione minorile, pedofilia), le domande sulla «vita privata» o la «sessualità» della persona offesa siano vietate a meno che non siano «necessarie alla ricostruzione del fatto». Dunque, le domande che riguardano il fatto storico di reato sono senz’altro ammissibili. Perfino quelle più “personali”, se necessarie. Non solo. Secondo il codice (art. 194), al testimone (e quindi alla persona offesa) possono essere rivolte anche domande sulle «circostanze il cui accertamento è necessario per valutarne la credibilità». Ciò significa che anche domande su aspetti secondari possono avere una loro rilevanza e utilità per l’accertamento della verità. Non dimentichiamo che su ogni domanda può essere sollevata opposizione da una delle altre parti processuali qualora la si ritenga illecita o irrilevante; e su tale opposizione decide il giudice, che quindi può anche non ammettere la domanda.
Non esisteva la possibilità, per tutelare la riservatezza della sfera personale, che queste domande fossero avanzate in un’udienza a porte chiuse per evitare la esposizione mediatica che ne è seguita?
La legge prevede, per ovvie ragioni, che nei processi penali la regola sia quella delle “porte aperte”. Ci sono però delle eccezioni. Nei processi per violenza sessuale, ad esempio, si procede a porte chiuse tutte le volte in cui la persona offesa ne faccia semplice richiesta. Ed è precisamente il caso del processo in questione, tanto è vero che le notizie che ne abbiamo provengono per via “indiretta” da interviste o dichiarazioni degli avvocati delle parti contrapposte riportate dai mass media. Una modalità di condotta dalle evidenti finalità, non solo processuali, sulla quale preferisco non esprimermi.
Non si corre il rischio che esser costrette ad esporre particolari e dettagli intimi nel corso dei processi possa indurre le vittime a rinunciare a presentare denuncia lasciando così impuniti comportamenti criminali che vanno duramente sanzionati?
Sono d’accordo con chi sostiene che in una violenza sessuale non vi sia nulla di “intimo”. Uno stupro è uno stupro. Tutti ricordiamo, spero, la vicenda di Franca Viola, che nell’Italia degli anni Sessanta “osò” denunciare pubblicamente ciò che aveva subìto, sottraendosi al famigerato “matrimonio riparatore”. E le tantissime donne che hanno il coraggio di denunciare le violenze subìte, anche tra le mura coniugali, sottraendole così alla sfera della “intimità” (che spesso coincide con l’impunità). Si tratta di reati, tra i più gravi e odiosi, che però dovranno essere accertati secondo le norme e nel rispetto dei diritti e delle garanzie di tutti. Regole di civiltà giuridica (e non solo) che la nostra società si è data, dopo un percorso lungo e faticoso, per certi aspetti neppure del tutto compiuto. Esiste certo il rischio che queste regole possano dissuadere dalla denuncia delle violenze subìte, ma ciò deve semmai stimolare tutti noi operatori a migliorarci nelle condotte e affinare le rispettive professionalità, non certo indurci ad arretrare sul piano, sempre pericolosamente inclinato, della nostra civiltà.
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