Lo scontro politico e la regola applicabile per lo sciopero generale
Un aspetto curioso dello scontro fra il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti e le confederazioni sindacali Cgil e Uil, promotrici dello sciopero generale contro la legge finanziaria, è che nelle settimane passate il primo si è battuto per modifiche della legge di bilancio sostanzialmente sovrapponibili a quelle chieste dalle seconde: “superamento” della riforma Fornero delle pensioni, ovviamente nel senso di un ritorno all’indietro, aumento della spesa corrente anche a costo di far lievitare il deficit di bilancio e il debito pubblico, conseguente scontro con Bruxelles. Non è dunque principalmente sui contenuti della finanziaria che Matteo Salvini si contrappone ai segretari confederali Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri; è lecito pensare che lo scontro sulla questione delle modalità dello sciopero sia servito ai contendenti per riprendersi la scena: Salvini in seno alla maggioranza, Landini e Bombardieri come aspiranti leader dell’opposizione.
Sul piano tecnico-istituzionale, la controversia che ha occupato le prime pagine dei giornali nei giorni scorsi è abbastanza semplice: l’Autorità garante ha applicato la regola sullo sciopero generale posta con una sua delibera di vent’anni fa, la n. 03/134, che nei due decenni passati è sempre stata pacificamente applicata con il consenso di tutti i sindacati. Secondo la regola, lo sciopero generale non è soggetto agli stessi vincoli di durata cui è assoggettato lo sciopero di settore. La questione delicata, qui, era se quello del 17 novembre potesse considerarsi uno sciopero “generale” o no. Parrebbe ragionevole qualificare come “generale” lo sciopero proclamato per il Centro Italia, dove effettivamente coinvolge quasi tutte le categorie; non invece quello proclamato nello stesso giorno per il Nord e per il Sud del paese, dove riguarda soltanto il trasporto pubblico e il pubblico impiego.
Cgil e Uil ora annunciano che impugneranno la delibera dell’Autorità garante e la precettazione disposta dal ministro come provvedimenti adottati in violazione della Costituzione. In realtà, sono provvedimenti adottati in forza della legge che regola la materia, n. 146/1990, in relazione ai quali può porsi un problema di correttezza dell’interpretazione e applicazione di quella legge, su cui dovrebbe pronunciarsi il Tar Lazio; non è certo una questione di costituzionalità, dal momento che è la stessa Costituzione, all’articolo 40, a prevedere che sia la legge ordinaria a disciplinare l’esercizio del diritto di sciopero.
Una questione sostanziale in tema di sciopero dei trasporti
Al di là della disputa sull’applicazione corretta delle norme che regolano la materia dello sciopero generale, occorre chiedersi perché le due confederazioni che lo hanno proclamato attribuiscano tanta importanza all’estensione temporale del blocco dei trasporti pubblici, al punto da farne una questione di principio.
Il motivo più plausibile sta in questo: quando i trasporti pubblici sono paralizzati, tutti sono impossibilitati ad andare al lavoro, anche coloro che non aderiscono allo sciopero. Insomma, lo sciopero dei trasporti funge di fatto da “sostegno tecnico” allo sciopero negli altri settori. In questo modo, però, si lede la libertà di autodeterminazione delle persone e il loro diritto al lavoro, che sono anch’essi diritti di rilievo costituzionale; e in questo caso la questione è aggravata dalla non partecipazione allo sciopero di una delle confederazioni sindacali maggiori: la Cisl. In qualche misura, ciò spiega la decisione dell’Autorità garante di applicare la regola da essa stessa posta vent’anni or sono in modo più restrittivo.
In Italia nell’ultimo ventennio la frequenza degli scioperi è stata complessivamente modesta: circa la metà rispetto alla Spagna e alla Francia (anche se il doppio rispetto al Regno Unito e il quintuplo rispetto alla Germania). La vera anomalia italiana sta nel fatto che qui da noi, sul totale degli scioperi, più di due terzi riguardano il settore dei trasporti pubblici. E l’anomalia è duplice se si considera che in questo settore lo sciopero non produce, per lo più, alcun danno alla datrice di lavoro: al contrario, durante lo sciopero, mentre gli abbonamenti non si riducono, si azzerano i costi per retribuzioni, carburante, energia e usura dei mezzi. Per l’impresa di trasporto pubblico lo sciopero è una boccata di ossigeno: tutto il danno è a carico dei viaggiatori, della collettività.
Questo snaturamento dello sciopero costa carissimo al movimento sindacale sul piano del prestigio e della saldatura tra interessi dei lavoratori in quanto tali e interessi della collettività. Nuoce al prestigio sociale dello sciopero anche l’abuso che se ne fa, particolarmente nel settore dei trasporti: lo stillicidio degli “scioperi del venerdì” è l’esatto contrario della solennità e gravità di questa forma di lotta di cui parlava Giuseppe Di Vittorio all’Assemblea costituente. Ma questo non è un problema che si possa risolvere cambiando la legge: occorrerebbe una autoriforma del sistema delle relazioni sindacali, che non sembra essere all’ordine del giorno.
(questo articolo è stato pubblicato su lavoce.info il 16 novembre 2023 e viene ripreso dal sito www.pietroichino.it con il consenso dell’autore)
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