Moody’s conferma il rating (basso) dell’Italia e alza l’outlook a stabile. Come si concilia questo giudizio con i giudizi della maggioranza degli economisti che parlano di rischi gravi per la finanza pubblica da questa legge di bilancio? Non è che gli economisti soffrano di catastrofismo stile terza internazionale? I cittadini comuni si domandano qual è la situazione reale
Moody’s manda il messaggio che la parte reale dell’economia è relativamente più reattiva di altre in UE alle conseguenze delle guerre e delle tensioni geopolitiche (vedi la Germania), ma la parte della Finanza pubblica è debole e sottoposta a rischi significativi. Questo è il significato del le tre B, che sarebbe un successo per un paese del Sud America ma non per un paese dell’Eurozona come l’Italia. D’altra parte, questo non è il giudizio degli economisti in quanto tali, ma delle più importante istituzioni indipendenti che valutano e controllano lo stato dei conti dall’Ufficio parlamentare del Bilancio, alla Banca d’Italia, alla Corte dei Conti e all’ISTAT. L’indipendenza di queste istituzioni è da paese a democrazia avanzata
La legge finanziaria mostra un deciso cambiamento di rotta. Cambia la geografia dei sommersi e dei salvati (ci scusi Primo Levi); si affonda il ceto medio, i lavoratori dipendenti qualificati e si salvano dalla apertura alla concorrenza categorie che beneficiano di privilegi e rendite, dai balneari ai tassisti, mentre la concorrenza aiuterebbe tutti i cittadini, ma non è popolare: le misure che assicurano vantaggi per tutti non mobilitano come le minacce a posizioni di rendita. Quale potrebbe essere una proposta in grado di catalizzare consensi?
L’Italia non ha bisogno di proposte che catalizzino il consenso. E’ proprio qui il tarlo della politica economica italiana, non solo di questo governo. Gli interventi non sono rivolti alla società nel suo complesso ma a spezzoni di questa, dove si annidano le constituencies dei vari policy makers. In realtà, i partiti, se ben guidati, potrebbero in teoria saltare i legami di tipo clientelare e proporre soluzioni per tutti i cittadini di oggi e soprattutto di domani. Pensiamo alle scelte degli anni del dopoguerra. Ma noi oggi non abbiamo partiti guidati bene e forse neppure partiti in senso nobile. Stessa cosa possiamo dire per i sindacati. I movimenti giovanili per la salvaguardia dell’ambiente potevano in teoria catalizzare il consenso di tutti ma sono guidati da personaggi irresponsabili e non sempre in buona fede.
Anche La riforma fiscale si muove lungo queste coordinate, basi pensare alla definizione delle imposte come “pizzo di stato”, che di fatto giustifica l’evasione, accettata come normale con la proposta di concordato fiscale. Ma non sarebbe meglio una soluzione che rivoluzioni il sistema fiscale, un nuovo spartito anziché intervenire con variazioni su tema?
In Italia non opera il così detto “effetto etica dell’onestà fiscale” (l’esatto opposto dell’etica del “pizzo di stato”) che, in paesi più evoluti, più sensibili al bene comune, funge da deterrente altrettanto forte della sanzione; tra l’altro “cost free” rispetto alla procedura accertamento/sanzione. Ad ogni modo Il principale problema del sistema fiscale italiano non è paradossalmente l’evasione fiscale. Oltretutto qualche misura, posta in essere dai governi passati, un po’ ha cominciato a funzionare. Dai dati dalla relazione del MEF nella NADEF, il fenomeno è in calo. Nel 2022 il risultato annuale di riscossione da prevenzione e contrasto all’evasione è stato di oltre 20 mld. Ma l’aria che tira in questo governo, in continua campagna elettorale, non lascia presagire niente di buono. Il problema principale del sistema fiscale è lo svuotamento delle basi imponibili dei principali tributi, falcidiate da esenzioni, agevolazioni e “mazzette” varie, con grave pregiudizio per l’equità orizzontale. Qui la sinistra è assente, abbagliata da problemi di progressività ed equità verticale.
E per le imminenti elezioni europee Giorgia Meloni alza il vessillo della guerra con l’Europa su riforma del patto di stabilità e MES. Contro tutti e tutto, in nome del debito pubblico italiano. Che ne può uscire?
Direi niente di buono, malgrado l’indubbia abilità della Meloni di acquisire alleati, di tutti i colori, a livello europeo. Può cristallizzare il dissenso della Germania che vuole “inquinare” la nuova regola, quella enucleata nel 2019 dall’ European Fiscal Board, con il ritorno al riferimento al deficit, o può condurre al ripristino delle vecchie regole del Patto di stabilità e crescita. Il rischio non è quello della austerità (slogan fuorviante) ma quello di ricostruire una disciplina fiscale potenzialmente pro-ciclica. Il fatto è che il governo italiano non accetta l’idea base delle nuove regole, quello di stabilire un programma di 5-7 anni di rientro dal debito, da stilare con l’UPB e concordare con la Commissione europea. La prova di questo si ha con la Legge di Bilancio che prevede nei prossimo 4 anni un rapporto debito/PIL di fatto stabile.
Senza dire del rischio di fallimento del pnrr, sia sul versante investimenti che su quello delle riforme. Cosa rischia l’Italia? .
Anche qui molto dipenderà dalle abilità politiche della Meloni e della sua capacità di ottenere sostegni trasversali. In merito, preoccupa molto di più il versante delle riforme che quello degli investimenti, che alla fine in qualche modo andranno in porto, probabilmente dirottati verso grandi operatori con maggiori capacità attuative (grandi imprese pubbliche). Ma la spinta alla produttività che deriverebbe dall’attuazione dell’intero pacchetto delle riforme strutturali verrà meno. Le mancate riforme riportano alle considerazioni svolte nella risposta alla prima domanda.
Lascia un commento