Il liberismo ha bisogno della sua “Bad Godesberg” altrimenti si avvierà a una sorte simile a quella del comunismo alla fine del xx secolo. Ne ha bisogno in primo luogo perché è divenuto ideologia, contrariamente alla sua radice liberale pragmatica e, appunto, anti ideologica. Diventando ideologia il liberismo ha perso contatto con la realtà e con la capacità di adattarvisi. Dagli anni Novanta fino alla grande crisi, il pensiero liberista ha ignorato le contraddizioni del presente, legate in particolare allo svolgersi del processo di globalizzazione economica e politica, per rifugiarsi nel disegno di un futuro utopico. Un mondo piatto liberal democratico, multiculturale, aperto al mercato, prospero e pacifico. L’avvento di questo paradiso liberale è diventato, nella narrazione delle classi dirigenti, inevitabile. Una conseguenza naturale dello svolgersi delle forze della storia, che, esattamente come nel caso del comunismo, andavano semplicemente assecondate anche quando apparivano in palese contraddizione con i fatti e i principi stessi del pensiero liberale.
Un esempio: abbiamo sistematicamente ignorato i vantaggi accordati a sistemi non di mercato (a partire dalla Cina) e i comportamenti commerciali scorretti, coltivando l’idea che questi paesi sarebbero comunque, presto e inevitabilmente, diventati democrazie liberali aperte al mercato. Abbiamo consentito la nascita di monopoli digitali che operano sostanzialmente al di fuori di ogni norma, e in primo luogo di quelle sulla concorrenza. E non è escluso che questa apparente contraddizione non sia invece la prima manifestazione del dominio della tecnica sul mercato e le premesse di una sua prossima alleanza con il nazionalismo. Abbiamo, in parole povere, ignorato la necessità di gestire le trasformazioni. Per un sistema di pensiero ideologico le contraddizioni insite nelle grandi trasformazioni sono solo inciampi momentanei in vista di un traguardo a cui tutto va sacrificato.
Stesso approccio è stato seguito in politica estera (fino alla sconfitta in Iraq), e sulla questione, ben più delicata, del rapporto tra identità e multiculturalismo e tra governance internazionale e stati nazionali. Su quest’ultimo punto vale la pena notare quanto poco le democrazie siano riuscite a riformarsi per essere in grado di gestire velocità e profondità dei cambiamenti e quanto invece siano avanzati gli strumenti di governance/integrazione sovranazionale, in particolare in campo finanziario e commerciale. Uno squilibrio che ha avuto pesanti conseguenze nel rapporto tra cittadini e stato. Anche per questo considero la sconfitta della riforma costituzionale in Italia un passaggio decisivo destinato a segnare la nostra storia.
Il risorgere del nazionalismo
Gli esiti di questi trent’anni di liberismo ideologico in occidente sono oggi abbastanza evidenti. Più di un miliardo di persone sono uscite dalla povertà nei paesi in via di sviluppo ma il conto è stato pagato dalle classi medie e basse dell’occidente. A ciò ha contribuito la velocità dell’innovazione tecnologica, che ha enormemente migliorato la nostra vita, ma allo stesso tempo ha penalizzato ampie fasce di popolazione e lavoratori. Molte altre conseguenze, positive e negative, sono derivate da questi trent’anni di occidente “trionfante”, che per inciso hanno però portato anche alla caduta della sua egemonia politica accelerando la nascita della potenza cinese.
Come tutti i fenomeni epocali, globalizzazione e innovazione tecnologica non sono univocamente negativi o positivi, ma senz’altro divisivi (tra vincenti e perdenti), quando dispiegano gli effetti a una velocità superiore alla capacità della società di seguirne le trasformazioni. Ed è in fondo proprio questo il punto di fragilità di questi ultimi tre lustri: il progresso è andato a una velocità immensamente superiore rispetto alla società. L’andamento dell’analfabetismo funzionale dimostra che non abbiamo investito sull’uomo, su diffusione di cultura e competenze, mentre avremmo dovuto rispettare la promessa fatta a inizio anni Novanta di “meno garanzie, più opportunità”. Ma c’è di più: l’enorme divario tra conoscenza, complessità dei fenomeni e potenza dei mezzi di comunicazione, ha fatto sì che una parte rilevante della popolazione occidentale sia stata contagiata dalla paura, sostenendo per conseguenza movimenti identitari, orientati alla chiusura e spesso illiberali. Contemporaneamente è sorta l’idea che esiste un diritto dei cittadini alla felicità, piuttosto che alla ricerca della felicità, con il corollario che il riequilibrio tra diritti e doveri, alla base della rivoluzione liberale e della stessa “terza via”, non è mai avvenuto. Il grande sconfitto di questi trent’anni è alla fine proprio l’umanesimo nelle sue diverse declinazioni: liberale, socialista e cristiano. L’umanesimo non elitario, quello che presupponeva non solo il moltiplicarsi delle eccellenze (cosa senz’altro accaduta), ma il diffondersi della conoscenza e della cultura e l’equilibrio tra mezzi dell’uomo e mezzi della tecnica.
L’eccezione italiana
Si può sostenere, come spesso accade di leggere nelle pagine di questo giornale, che in Italia non ci sia mai stato un dominio del pensiero liberista, ed è senz’altro vero.
Ma inserita in un contesto che andava in una direzione precisa, l’Italia ha importato gli effetti della globalizzazione, come e più di altri paesi. A ciò si è aggiunto, con l’eccezione della scorsa legislatura (ma qui sono vergognosamente di parte) un lunghissimo periodo di malgoverno che va dagli ultimi dieci anni della Prima Repubblica a oggi. Per essere chiari, considero le nostre responsabilità immensamente superiori a quelle “importate”. Ma l’obiezione sulla crisi dell’Italia come caso a sé stante e quasi unico nell’ambito di un occidente sostanzialmente in buona salute, non regge, proprio quando si ribalta la prospettiva. Sono infatti i paesi portati per anni a esempio dai liberisti, Regno Unito e Stati Uniti fra tutti, ad aver mostrato reazioni ancora più violente ai dogmi degli ultimi trent’anni. Di tutto ciò deve tenere conto chi ritiene, come me, il pensiero liberale comunque il punto più elevato raggiunto dal pensiero politico degli ultimi secoli.
Popolari e socialdemocratici in mezzo al guado
Ma non è solo il liberalismo a essere entrato in crisi. Anche popolari e socialdemocratici sono stati spiazzati dall’onda di riflusso che ha colpito tutto l’occidente. La tentazione per queste due famiglie politiche è il ritorno indietro, il ripiegare verso un pensiero antico e rigido inadatto a misurarsi con la forza e la chiarezza degli argomenti del nazionalismo da un lato, e con le sfide del presente e del futuro dall’altro. Per i popolari il rischio è quello di virare verso un conservatorismo stantio per governare e includere le spinte nazionaliste. Magari recuperando un’idea di società identitaria, statica e tradizionalista. Non è una soluzione praticabile. Il rischio è quello di finire a fare la ruota di scorta dei nazionalisti. E non sarebbe la prima volta nella storia. L’irrilevanza di Forza Italia è la dimostrazione dell’inevitabilità di questa parabola quando si perde la capacità di produrre un pensiero originale (e un rinnovamento della classe dirigente) a favore di una sottomissione ai nazionalisti mascherata da negoziato politico.
All’altro capo dello spettro politico anche la sinistra corre un rischio analogo. Il riflesso antico di rifugiarsi nell’antifascismo come unica fonte di pensiero politico e di rispondere all’ideologia sovranista con approcci ideologici uguali e contrari, è scritto nel suo Dna. Nascono così rigurgiti massimalisti, l’incapacità sempre più manifesta di rispondere a problemi complessi con soluzioni attuabili e la tentazione irresistibile, nel caso italiano, di cercare alleanze con movimenti improbabili sempre nel nome dell’antifascismo. Senza un cambiamento di direzione sono pronto a scommettere che dopo le prossime elezioni la politica italiana si troverà divisa in due campi: da un lato la destra guidata da Salvini e dall’altro la “sinistra” composta dal Movimento 5 stelle e dal Pd. Una “sinistra” destinata alla sconfitta perché priva di un pensiero proprio da opporre a quello chiaro, netto e comprensibile della destra nazionalista. Il Pd sta silenziosamente e in parte inconsapevolmente percorrendo questa strada, nonostante la contrarietà di una buona parte dei suoi elettori. Si tratta di una operazione di conservazione di ceto politico, nascosta dietro posticci richiami a una “vocazione maggioritaria” degna di ben altra incisività di iniziativa politica. Un’attrazione fatale che, in fasi diverse, ha coinvolto tutte le componenti del Pd. La vera storia della trattativa tra Pd e M5s all’indomani delle elezioni del 4 marzo non è mai emersa perché i protagonisti di quella vicenda hanno preferito tacere, contribuendo a un’ulteriore confusione del quadro politico. Tutti sanno che l’obiettivo era e rimane un’alleanza non subalterna con il M5s. In mezzo, il nulla. O meglio in mezzo sta l’Italia seria, quella che produce, lavora, studia, si impegna, sempre più orfana di una rappresentanza politica.
La nascita di un pensiero politico nuovo
La mia tesi è che oggi possa nascere un pensiero politico nuovo, adatto ai tempi, che recuperi (in parte) e rinnovi quello delle tre grandi famiglie politiche democratiche europee: popolari, liberaldemocratici, socialdemocratici. Un pensiero fondato sul recupero del valore dell’identità (non statica ma in continua evoluzione) e di un patriottismo inclusivo, su un’economica sociale e di mercato, sull’attenzione al progresso della società come obiettivo superiore rispetto a quello della crescita economica, che si è dimostrata condizione necessaria ma non sufficiente per la diffusione del benessere nella nostra società. Gli indicatori di benessere equo e sostenibile devono rappresentare la guida per verificare l’efficacia delle politiche prendendo progressivamente il posto del pil. I due pilastri che sorreggono questo pensiero devono essere la difesa dei principi e dei valori delle democrazie liberali (cosa che implica profonde riforme istituzionali per renderle adatte ai tempi); un investimento straordinario sull’uomo (cultura e competenze), che non solo rispetti finalmente la promessa di una società delle opportunità, ma che risponda a una domanda di “senso” rimasta a oggi senza risposta. In quest’ambito il rapporto, poco discusso in Italia, tra uomo e tecnologia-progresso, sarà decisivo nei prossimi decenni. Il ruolo dello stato e della politica deve tornare a essere centrale e preminente. Se le trasformazioni vanno gestite, peraltro in un contesto internazionale più instabile, uno stato forte è indispensabile. Stato forte non vuol dire pervasivo ma concentrato sulle aree di fragilità del tessuto sociale, sulle fratture geografiche, generazionali, economiche e educazionali e sui rischi geopolitici.
Alcune priorità
Da quanto esposto discendono numerose conseguenze in termini di policy, ne citerò solo alcune.
1) Gli investimenti in scuola, cultura e sanità sono oggi insufficienti, i relativi bilanci vanno rafforzati. Dobbiamo chiarire fino in fondo agli italiani che il rischio di perdere progressivamente la protezione sanitaria universale si sta già materializzando. Su questa base soprattutto va difesa l’esigenza di tenuta dei conti pubblici. Il “ce lo chiede Bruxelles” non vuol dire più nulla per gli italiani. Stessa cosa per ciò che concerne l’educazione. I picchi di eccellenza non giustificano le sterminate valli di sottosviluppo culturale ed educativo. Fino a che un bambino nato in una famiglia disagiata del sud, non riceverà la stessa educazione di uno nato in una famiglia borghese del nord, la nostra democrazia sostanziale rimarrà a rischio.
2) La riduzione delle tasse deve riguardare solo gli investimenti, di famiglie e imprese (esempi sono eco-bonus e impresa 4.0), e chi è in una situazione di profonda difficoltà economica. Ambiente e tecnologia sono sfide di trasformazione della società, che non coinvolgono solo la tecnica ma anche e soprattutto l’uomo, le nostre abitudini, conoscenze, priorità. Gli investimenti, pubblici e privati, sono l’unica risposta. Flat tax e altre amenità ispirate al principio del “trickle down”, che alimentano (forse) la crescita, aumentando (sicuramente) le diseguaglianze, vanno abbandonate. Dobbiamo avere ben chiaro, e spiegare al paese, che ci sono solo tre alternative possibili per evitare il default dell’Italia: una gigantesca patrimoniale; la ristrutturazione del debito sotto Troika, che lascerebbe il paese sul lastrico; la responsabilità finanziaria associata a una lotta senza quartiere all’evasione fiscale. Non c’è bisogno di indicare quale scelta occorrerebbe compiere.
3) Il progresso non può essere disumanizzante. Vale per i braccialetti di Amazon, così come per l’utero in affitto. Tutte le forme di comunità, a partire dai nuclei familiari di ogni tipo, vanno sostenute e rafforzate. In questo senso, fermo restando la centralità del principio di laicità dello stato, nessuna forma di secolarizzazione deve o può essere confusa con la modernità.
4) Fenomeni epocali come le migrazioni e la globalizzazione non possono essere gestiti ideologicamente. Il presidio dei confini è elemento costitutivo dello stato e non può essere abbandonato in nome di un generico altruismo. L’Italia si affaccia su un continente che crescerà di 1,2 miliardi di persone, i confini aperti non sono un’opzione praticabile. Al contrario occorre lavorare per percorsi di immigrazione legale e selettiva, la gestione degli irregolari, l’implementazione del “migration compact” proposto dall’Italia per gestire in Africa i flussi migratori. Vanno ovviamente rispettate le norme internazionali sui salvataggi in mare e sui rifugiati. Allo stesso modo la globalizzazione va raddrizzata attraverso un’alleanza economica sempre più stretta tra i paesi democratici con economie di mercato. Il paradigma della prima fase della globalizzazione: accetto la concorrenza sleale di paesi in via di sviluppo, con conseguente perdita di posti di lavoro e pressione sui salari, per avere domani nuovi mercati di sbocco, va corretto. Questo vale anche per i paesi dell’Est Europa. La storia per cui i lavoratori pagano lo sviluppo del mondo e gli azionisti aumentano i profitti e diminuiscono il loro contributo fiscale alla società, deve finire.
Lontani dal moderatismo, vicini all’Italia seria
Mi fermo qui, ma nelle prossime settimane lavorerò insieme ad altre persone allo sviluppo di una piattaforma ideale e programmatica che spero possa servire per costruire una grande alleanza dei movimenti e dei cittadini democratici in vista delle prossime elezioni italiane. La stessa alleanza che si sta componendo in Europa in questi giorni e che porterà alla totale irrilevanza di sovranisti e anarcopopulisti (i Cinque stelle per intenderci) nelle istituzioni europee. Faremo partire questa operazione dal “basso”, con amministratori locali, personalità della società civile, cittadini. Vedremo quale forma prenderà, tenendo sempre a mente che oggi l’obiettivo è unire e non dividere il campo democratico. E’ quello che abbiamo fatto con Siamo Europei; un progetto riuscito solo a metà, ma che comunque ha smosso il Partito democratico evitando il peggio alle elezioni europee.
Come già scritto, sono convinto che la Lega è forte solo perché l’Italia seria, quella che lavora, produce, studia e investe è debole e frammentata nella sua rappresentanza politica. Dobbiamo ricostruire il baricentro della politica italiana sulle istanze di questa Italia, per evitare una polarizzazione populista del sistema politico. Un baricentro dinamico e innovativo, nulla a che fare con il “moderatismo” o il “centrismo” che ha caratterizzato tutte le operazioni gattopardesche della politica italiana. Trovare il modo di unirci intorno a un programma forte e rivoluzionario è ciò che è necessario. E mi aspetto migliaia di quei distinguo che appassionano tanto i liberali da “circolo del Whist”, quanto la sinistra che è sempre più a sinistra di tutti. Ma non ci lasceremo scoraggiare. La nuova linea di faglia della politica occidentale è tra chi crede nei valori della democrazia liberale e chi la vuole distruggere. Occorre scegliere da che parte stare.
Carlo Calenda
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