Proiezione. In psicoanalisi, meccanismo di difesa per il quale il soggetto attribuisce ad altri sentimenti, desideri, aspetti propri che rifiuta di riconoscere in sé stesso (…) La proiezione è un meccanismo di difesa molto primitivo ed è specifico dei disturbi paranoidi.
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Il 27 febbraio del 2015 Boris Nemtsov, dalla radio Eco di Mosca, emittente che verrà poi chiusa nel 2022 per i suoi servizi sull’Ucraina, denunciava l’invasione della Crimea, il conseguente referendum farsa e annunciava la presentazione di prove del coinvolgimento diretto dell’esercito russo nel conflitto del Donbas. Tre ore dopo veniva assassinato sul Ponte Bol’šoj Moskvoreckij, di fronte al Cremlino. Putin parlò di “provocazione” e inviò un telegramma di condoglianze alla madre…
Nemtsov era una delle voci più critiche contro le politiche autoritarie e liberticide e contro la corruzione del regime putiniano, uno degli organizzatori insieme a Alexei Navalny della manifestazione di piazza Bolotnaya del 6 maggio 2012. Nel 2010 aveva pubblicato Putin. Corruzione, una denuncia relativa alla sparizione di fondi destinati alle Olimpiadi invernali di Soči, secondo le stime dello stesso Nemtsov sarebbero finiti nelle tasche di imprenditori e politici circa 22,2 miliardi di euro, mentre, nei suoi ultimi giorni, stava lavorando a ristabilire la verità sulla guerra della Russia all’Ucraina che, troppo spesso, dimentichiamo essere iniziata nel 2014.
Nemtsov però ci parla ancora perché lo stato avanzato del suo lavoro e la mole della documentazione raccolta, unite alla caparbietà e al coraggio di un gruppo di giornalisti e di alcuni esponenti di RPR-Parnas, un partito di ispirazione socialdemocratica, in tre mesi resero possibile la pubblicazione del dossier, a cui seguì l’anno successivo la traduzione francese (Le rapport Nemtsov. Poutine et la guerre).
La denuncia è meticolosa e completa, sorretta dalle testimonianze di paracadutisti e carristi russi, delle madri dei soldati e dai famigliari dei deceduti. Emerge la presenza di militari russi, fatti passare per volontari, in Crimea e nel Donbas; il tentativo di nascondere le vittime comprando il silenzio dei famigliari o costringendoli a ritirare gli annunci di morte oppure parlando di incidenti durante esercitazioni nella zona di Rostov.
L’ottavo capitolo è dedicato all’abbattimento del Boeing malese nel 1914, alle contraddittorie versioni russe e alle inchieste indipendenti che hanno portato alla verità. Verità ammessa indirettamente anche dall’ambasciatore russo all’Onu quando ha dichiarato che se i separatisti del Donbas pensavano di aver abbattuto un aereo militare allora si tratta di un errore, non di terrorismo.
Non mancano riferimenti ai furti, arresti arbitrari, torture e uso dei civili come scudi umani oltre ai costi altissimi anche per i cittadini russi.
Da tutto l’insieme risulta evidente che l’intervento militare era stato preparato ben prima del marzo del 2014 perché dovuto alla paura del contagio delle “rivoluzioni colorate” e alle legittime aspirazioni europee dell’Ucraina e a ragioni di politica interna, vale a dire contrastare il calo della popolarità di Putin reso palese dalle giornate di piazza Bolotnaya e dalle manifestazioni del biennio 2011/13.
Le coraggiose denunce sono state osteggiate e requisite in quanto definite “letteratura estremista”, ma, paradossalmente, sono proprio la reazione e la propaganda del regime a confermarne la veridicità.
Valgano come esempio due articoli di Timofej Sergeytsen comparsi su Ria Novosti a un anno di distanza l’uno dall’altro. Ria Novosti è stata l’agenzia stampa di stato prima sovietica, poi russa e ora è incorporata nel nuovo gruppo editoriale statale Rossiya Segodnya, che comprende anche Sputnik, il maggior diffusore di fake news funzionali alla propaganda e alle politiche destabilizzanti del Cremlino in sintonia con il canale satellitare Russia Today, con cui condivide anche il direttore: la potente Margarita Simon’yan, colei che tiene in mano tutte le leve della propaganda e della dezinformacija rivolte all’estero.
Il primo articolo, del quale se ne possono leggere diversi passaggi in un pezzo di Paolo Mauri (Ecco chi è Timofey Sergeytsev, il giornalista russo che vuole denazificare gli ucraini, it.insideover.com), risale all’aprile del 2021 e appare una giustificazione preventiva, dato l’anticipo di dieci mesi, del tentativo di occupare tutto il territorio ucraino e di eliminare Zelensky.
L’autore, in base alla piuttosto sconcertante considerazione secondo cui vediamo ragionevolmente una minaccia dall’Ucraina non solo per i cittadini russi che si trovano nel Donbass ucraino, ma anche per i territori russi adiacenti all’Ucraina. Questa minaccia deriva chiaramente non solo dalle dichiarazioni dirette dei rappresentanti della leadership ucraina e degli ideologi ucraini, ma dal tipo stesso di militarizzazione ucraina basata su meccanismi di aggressione specificamente nazisti, auspicava l’intervento armato ritenendo la guerra un’intenzione che la dirigenza russa prende sul serio dato che ormai Kyïv ha prestato giuramento nazista di massa attraverso l’apparentemente benevolo avvicinamento politico all’Europa.
Inoltre Sergeytsen ritiene la popolazione corresponsabile con il governo dell’attuale situazione le cui cause risiederebbero nella mancata denazificazione dei satelliti tedeschi, intendendo con questa espressione tutti i paesi dell’Europa orientale, causa delle rivolte essenzialmente fasciste dell’Ungheria e della Cecoslovacchia nel 1956 e nel 1968 e per questo ritiene necessario un intervento armato come ci fu allora ma questa volta il regime di occupazione correttiva in relazione all’Ucraina non dovrebbe in alcun modo ingraziarsi la popolazione, compreso evitare il ricorso alla retorica del popolo fratello.
Concetti che vengono ribaditi nel secondo articolo, quello del 3 aprile del 2022 con il titolo Cosa dovrebbe fare la Russia riguardo all’Ucraina, dove si legge che la maggioranza significativa del popolo è dominata e attratta dalla politica del regime nazista ed è per questo che i tempi della denazificazione non possono avere una durata inferiore a una generazione e sarà anche necessario cancellare anche il nome Ucraina, perché indica un’entità che non esiste come stato nazionale e i tentativi di costruirne uno hanno portato inevitabilmente al nazismo, quindi la denazificazione, da perseguire anche attraverso punizioni esemplari, sarà inevitabilmente anche una deucrainizzazione che dovrà consistere anche in una deeuropeizzazione.
Ritengo di non soffermarmi oltre sui contenuti di questo secondo articolo dato che è consultabile in versione completa in rete (https://twitter.com/s708844035/status/1511284218076217351) e perché è solo un ribadire, in modo ancora più esplicito, i chiari intenti genocidari già espressi. Vale solo la pena di notare che in 166 righe incontriamo 86 volte il termine nazismo o uno dei suoi derivati (nazista, denazificazione, ecc.): una volta ogni meno di due righe! In questo modo quello che voleva essere un testo argomentativo diventa la mera trascrizione di un delirio paranoide.
Sì, perché solo come un delirio può essere intesa l’accusa di nazismo lanciata verso un paese in cui vigono libere elezioni nelle quali l’estrema destra, presentatasi con due partiti, ha ottenuto non più del 3% dei voti e ha eletto un solo parlamentare. E per di più, visto che dovrebbe essere chiaro a tutti chi sia l’ispiratore e committente di tale delirio, si tratta di un’accusa formulata da chi da nazista si comporta da anni, verso il suo popolo e verso e nei rapporti internazionali, con arresti arbitrari, omicidi mirati di oppositori e dissidenti, torture, deportazioni, esecuzioni sommarie di civili tra cui molti bambini, distruzioni di intere città portate avanti con la freddezza e la determinazione di un serial killer.
C’è però del metodo in questa follia. anche tali accuse, assurde e insostenibili, “rivelano la terribile realtà che ci circonda”, come le provocazioni dell’artista bielorusso Vladislav Bohan riportate da Anna Zafesova (“Specchio” 10/10/23). Bohan, nell’intento di dimostrare che “la dittatura rende incapaci di intendere e di volere” aveva inviato ai presidi di diverse scuole russe delle email firmate Sezione regionale di Russia Unita che ordinavano iniziative patriottiche con acclusa la lista degli slogan da utilizzare: “Il lavoro rende liberi”, “Dio è con noi”, “Un popolo, uno stato, un leader”. Il dramma è che i presidi hanno eseguito con solerzia, hanno ritenuto verosimile l’invito a utilizzare slogan che avrebbero dovuto ricordare loro qualche cosa, slogan già sentiti in un’altra lingua: “Arbeit macht frei”, “Gott mit uns”, “Ein Volk, ein Reich, ein Führer”. Ora capisco cosa intendono i miei amici ucraini quando dicono che la maggior parte dei russi è “zombificata”…
È questa zombificazione a far dire a Oleg Orlov, copresidente del Centro per i diritti umani Memorial e Premio Nobel per la pace nel 2022 (Volevano il fascismo in Russia e l’hanno ottenuto, www.huffingtonpost.it), che sul fronte interno Putin ha già vinto dato che solo “una minoranza minuscola cerca di reagire” e che “il paese che trent’anni fa aveva preso le distanze dal totalitarismo comunista è ripiombato in un altro totalitarismo, quello ormai fascista”.
Che le aggressioni della Crimea e del Donbas del 2014 fossero anche operazioni di politica interna Nemtsov lo aveva capito e immediatamente denunciato ed è anche per questo che è stato ucciso. Come sostiene Michel Eltchaninoff nella postfazione al Rapporto, la crisi economica che ha reso insostenibile il patto su cui poggiava il consenso per il regime, occhi chiusi di fronte alla corruzione e crimini di stato in cambio di discrete pensioni e prezzi bassi dell’energia, unite alle contestazioni del 2012 e al successo dell’Euromaidan, hanno costretto Putin, impossibilitato a contraccambiare tale complicità con qualcosa di concreto e tangibile, a coinvolgere il suo paese in un sogno di grandezza costituito da una missione civilizzatrice e un destino imperiale. In altre parole un “Reich millenario”, anche tutto questo non è altro che un banale e drammatico dejà vu.
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