Per il fatto che le persone vivono sempre più spesso a lungo, quando muoiono si consegnano alla memoria familiare e collettiva come figure che attraversano generazioni intere. Se poi lo fanno con l’alto profilo umano, culturale e politico di Giorgio Napolitano un segno profondo in una comunità lo lasciano per forza. E non è easgerto dire che per queste ragioni si consegnano anche alla storia.
La misura e l’equilibrio generale – inaspettato in una società civile italiana che la si vuole e la si descrive radicalizata politicamente – con cui questa morte è stata seguita dice molte cose al riguardo. Nulla sopra le righe, niente al ribasso, punte polemiche smussate, anche quando le si poteva radicalizzare, mitigati i mass media teoricamente ostili, compostezza sostanziale, ma anche nessun osanna, nessuna beatificazione. Le differenze con la morte di Berlusconi si sono viste, ma va detto che poi alla fine neppure in occasione di quella morte l’esaltazione da una parte e l’accanimento in negativo dall’altra hanno assunto dimensioni realmente eclatanti, le Dacie Maraini si son contate sulle dita di una mano.
Tutto ciò che è stato detto e scritto su Napolitano in queste settimane è vero nella misura in cui una persona come me, di una generazione successiva ( era della stessa classe d’età di mio padre), può testimoniarne la fondatezza, mancandomi solamente l’esperienza diretta dei suoi esordi. E allora: evitando di dire ‘missione’, la politica come impegno di vita, la Repubblica, i suoi valori fondanti, la Costituzione di cui non è stato Padre, ma figlio primogenito si, le Istituzioni a tutti i livelli, persino la migliore napoletanità. il contributo a rendere rispettabile e istituzionale un partito come il PCI, a partire già dalla metà degli anni ’60, porta sicuramente anche la sua firma e forse non ho detto tutto. Poi , è chiaro, ha interpretato la Presidenza della Repubblica a modo suo, uscendone bene in un momento in cui lo si poteva accusare di esser di parte. Ciò che è stato fatto, ma in definitiva con il silenziatore.
La sua figura, in più, richiama, diventandone emblematica, una istituzione, quella della Presidenza della Repubblica, che da quando esiste, ha, in chi l’ha rappresentata, un profilo che può riconoscersi in senso lato con quello di Napolitano. Profili più alti senza alcun dubbio dei parlamenti che li hanno eletti e in generale dei governi a loro contemporanei (i parlamenti, si vede, hanno un sesto senso che ogni volta che c’è da eleggere un Presidente provoca in loro un rigurgito di dignità, che solitamente non hanno. Ci dev’essere un loro Santo in Paradiso). Forse con la sola eccezione per motivi diversi di Segni, Leone, Cossiga e di Saragat, a suo tempo considerato mediocre, l’Istituzione si è incarnata per due terzi di durata della Repubblica, da De Nicola in avanti, in figure non distanti dall’alto profilo e dall’affidabilità repubblicana e costituzionale di Napolitano, Mattarella incluso, ben s’intende. (neppure il guitto ligure Crozza è mai riuscito a graffiare a fondo persone del genere, difese da una corazza umana che magari ha insegnato qualcosa anche al guitto stesso,temperandogli la verve dissacrante e, a tratti, un tantino qualunquista e cialtrona). Se poi ci si riferisce ai più recenti trent’anni della Seconda Repubblica, si può ben dire che siamo stati ‘miracolati’ ad avere queste figure di compensazione nei confronti delle derive anticostituzionali e populiste, con mandati lunghissimi negli anni ‘2000, probabili quattordici per Mattarella e nove per Napolitano, ventitre anni in due sole figure di riparo costituzionale. Non potrà andarci sempre così bene. Il discorso di livello di Gianni Letta su Napolitano, in occasione delle esequie, poteva rappresentare, per chi lo faceva, una figura in continuità con questi profili, seppur proveniente da un altra parte politica che può sempre avere i numeri, ma la sua potenzile età tra sei anni ce lo fa escludere per forza. E allora ripeto: non potrà andarci sempre così bene.
Non si può tuttavia dimenticare la formazione politica e il ruolo politico di Napolitano, che lui ha espresso in libertà solo quando ha cominciato a ricoprire cariche di garanzia nelle presidenze istituzionali e in Europa. C’è una certa coincidenza tra i primi rivolgimenti e mutazioni del PCI a partire dal ’91 e le sue cariche, visto che è presidente della Camera nel ’92 e da allora comincia una carriera di rappresentanza alta anche come parlamentare europeo, già sperimentata una prima volta a fine anni ’80.
Si può ben dire che in questo modo si è tolto un imbarazzo.
Si sa infatti della sua formazione politica, legata ad una visione crociana e idealista, passatagli dal suo padre putativo Giorgio Amendola, figlio di un liberale massacrato dai fascisti, si sa della sua vocazione autenticamente riformista, fin dall’inizio nettamente socialdemocratica e intimamente, ma non si poteva dire, liberal democratica. Teoricamente i passaggi da PCI a PDS a DS e poi soprattutto a PD avrebbero potuto e dovuto, per scelta resa esplicita da quei nuovi partiti, liberare questa componente (Lib Lab, o migliorista come la si chiamava) dalla sua condizione eternamente minoritaria, rimasta sempre all’interno del partito, liberarla per farla divenatere finalmente egemone per piena corrispondenza con le nuove impostazioni politiche che le nuove carte statutarie indicavano. Si sa che non è andata così, erano ‘carte’ appunto, nonostante le buone intenzioni ad un certo punto di Valter Veltroni nel 2007. Ma Napolitano in quel certo punto di Veltroni era già al riparo nelle istituzioni. Non più responsabile di non fare battaglie interne per rivendicare di far uscire alla luce del sole la linea di pensiero politico di tutta una vita. La coerenza con quella linea se l’è giocata cioè, a quel punto, nelle istituzioni. Un uscirne bene in definitiva.
Semmai c’è da capire come questa nicchia riformista, e lui stesso, siano rimasti in questa condizione minoritaria e silente prima, nel PCI, fino all’89 cioè. Sono i misteri che solo politologi sottili sono in grado di spiegare. Napolitano era già Napolitano con le sue idee di sempre nel ’56 quando i carri sovietici invadevano Budapest; e però in nome dell’unità del PCI, e di una Unione Sovietica da lui ritenuta esternamente, ma non intimamente, paradiso in terra, eccolo silente a guardare dall’altra parte e a giustificare tutto, come ancor di più il padre politico Giorgio Amendola (solo a tarda età, non a caso sulla soglia del settenato presidenziale, e ciò gli ha fatto tardivamente onore, Napolitano ha riconosciuto quell’errore). E poi ancora sempre a fare presenza interna, critica ma sempre sostanzialmente silente, in nome dell’ipocrita centralismo democartico del PCI, ai tempi della questione morale di Berlinguer, che lo vedeva in dissenso, e poi ancora nel rapporto coi socialisti, che lui favoriva, ma Berlinguer no. Nonostante il centralismo democratico erano lo stesso correntizi alla grande Amendola, Napolitano e i suoi, come facessero non so, è un mistero gaudioso. Ma è anche la spiegazione del posizionamento interno, critico ma sempre unitario, per una visione dogmatica superiore che li garantiva in una pax interna. Lo spazio e il mandato nelle istituzioni se lo ricavavano con il posizionamento interno, numeri alla mano, e li sapevano manovrare anche con congressi unitari (l’ho detto, mistero gaudioso).
Era distante in quei lontani tempi di Prima Repubblica il pensiero, di Napolitano e dei suoi adepti, sul mondo e sulla società, da quello di un Lombardi, sicuramente più estremista di lui, di un Parri, di un La Malfa, di un Moro stesso? No, spesso collimava, ma nessuno di loro si fidava di abbandonare la zattera comunista, perchè le alternative seriamente aggregative e affidabili da altre parti di fatto non c’erano.
E forse non avevano neanche torto.
Del resto continuano a pensare la stessa cosa e a non fidarsi i riformisti attuali nel PD, compresi gli ex miglioristi rimasti, che lì trovano un luogo di garanzia che altrove sarebbe molto più precario. E anche in questo caso: si può dar loro torto? Mica tutti possono trovare come niente fosse le zone confortevoli, quanto serie e impegnative, che ha trovato Re Giorgio alla soglia dei suoi settant’anni e occupate con grande dignità e autorevolezza per i successivi trenta.
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