La pelle del pollo, specie arrosto, è una cosa molto interessante.
Lo è perché a qualcuno non piace e la scarta con massima cura, quasi inorridito, mentre altri la gustano con vero piacere, così croccante e saporita.
Mi è venuta in mente la pelle del pollo riflettendo ancora sui segni sui muri delle città.
Ne ho già parlato in merito alla scritta W Stalin, ma adesso vi voglio proporre qualche approfondimento.
I muri delle città coperti di segni sono un po’ come la pelle del pollo: alcuni li guardano con schifo, non sapendo invece che in realtà sono una cosa molto gustosa se osservati con la massima attenzione.
In effetti con tutti i cibi è così: spesso non ti piacciono perché non li assaggi. Ma una volta provati, magari grazie a qualcuno che ne va pazzo, puoi ben apprezzarli.
La pelle del pollo può anche essere tolta dalla carcassa prima di cuocerla, può essere mascherata con le spezie, può essere accuratamente eliminata dopo la cottura, prima di portare il pollo in tavola. Oppure può anche essere mangiata con noncuranza, senza farci caso un boccone dopo l’altro, conversando amabilmente con gli amici.
I segni sui muri delle città sono proprio così. Tutti i polli hanno la pelle, tutte le città hanno i segni, ma puoi far finta di non vederli, di schifarli, di rimuoverli, oppure osservarli con cura, cercando di comprenderli.
Chiariamo subito una cosa. Non parlo di street art. Non parlo di quei grandi muralesche ora sono sempre più di moda, fatti spesso da artisti che si dicono spontanei ma che sono a tutti gli effetti artisti pagati per “abbellire” le città.
Ora, se avete letto con attenzione questa rubrica sin dalla prima uscita avrete capito che a me non interessa nulla degli aspetti estetici. Considerare l’arte “estetica” poi è la più grande offesa che si possa fare agli artisti ed all’arte stessa. Il “bello” non esiste, non esiste il bello assoluto, come non esiste il brutto assoluto e neppure il male o il bene assoluti.
Il mio “abbellire” è fortemente ironico, nella misura in cui la pelle del pollo non può essere messa in gabbia, non da sola dico, se ce la metti, in gabbia o in forno, ci va messa con il pollo intero.
Lastreet artalla quale mi riferisco, non è la città, è un pezzo di città, che qualcuno ritiene bello. Fine. Penso sia molto chiaro.
No, sto parlando di un’altra cosa.
Sto parlando di quella miriade di segni, di scritte, di simboli che appaiono e scompaiono sui muri delle città, quelli che una volta erano detti “graffiti”.
Nulla di nuovo direte, ci sono, anzi c’erano e ci sono rimasti, anche a Pompei. Certo, è vero, e alcuni sembrano proprio scritti adesso: “Mi stupisco, parete, che tu non sia crollata in macerie, visto che sopporti i fastidi di tanti scrittori.”(CIL IV, 1904); “Magari tali inganni ti si ritorcessero contro, oste! Tu vendi acqua, ma bevi vino puro.”(CIL IV, 3948); “Cose barbare balbettavano sotto barbe barbare.”(CIL IV, 4235); “Questo luogo non è per gli sfaccendati. Vattene, perdigiorno!”(CIL IV, 4813), CIL: Corpus Inscriptionum Latinarum.
I Comuni si sforzano in ogni modo di impedire di scrivere sui muri. In effetti è giusto, non si scrive sui muri, anzi, non si dovrebbe scrivere sui muri, nella misura in cui ciò danneggia il muro, specie se pregiato, come l’area di Ponte Vecchio a Firenze, dove quasi ogni giorno si assiste a una battaglia tra chi scrive e chi cancella.
Tuttavia… Lo scrivere come accennato anche solo con l’esempio di Pompei è proprio innato, non è un istinto distruttivo, è la voglia, innata, di lasciare un segno e di esprimere il proprio pensiero nel modo più semplice possibile. La scritta sul muro è davvero il grado zero della scrittura, e anche se sembra paradossale nella maggior parte dei casi non si rifà a canoni precisi, non ha spesso una grammatica, se non interna, è specie negli esempi più recenti una metascrittura, dove il ruolo simbolico della parola è portato ai massimi livelli.
Le scritte sui muri sono proprio la neolingua.
Gli uomini ovunque vadano, da sempre, devono dimostrare di esserci stati, in ogni modo. Dentro la piramide di Cheope c’è una grande scritta che dice:“Scoperta da G. Belzoni. 2. marzo. 1818”.Giovanni Battista Belzoni era l’egittologo italiano che per primo in epoca moderna è entrato nella piramide: la scritta è un documento e nessuno si sognerebbe di cancellarla.
Ma allora, anche le scritte sui muri delle città sono documenti che non devono essere cancellati?
Ovviamente no, non tutti… ma… quando vengono cancellati andrebbero prima di tutto documentati, con una semplice fotografia, essendo sempre, questo sì, documenti.
Le scritte nelle città sono mappe sociali, molto utili anche alla politica, se ci fossero politici preparati a leggerle voglio dire.
Fossi un sindaco di una città medio/grande creerei subito una task force con un antropologo, un sociologo e uno storico e gli spedirei per tutta la città a fotografare tutte le scritte su tutti i muri. Poi magari farei pulire la città, ma quelle foto sarebbero la mia guida, i miei documenti per pianificare i prossimi cinque anni (come sindaco appena eletto). Obbligherei l’intera giunta a studiarle. Da quelle scritte posso creare ogni genere di mappa sociale, sapere dove nella città ci sono più disagi economici, capire le vere linee di mobilità urbana divise per fasce d’età, avere dati sull’abbandono scolastico e sull’occupazione giovanile. La quantità di dati anche nel lungo periodo che questi segni ci possono dare è vertiginosa. Non c’è ufficio studi comunale in grado di produrre una simile massa di informazioni.
La pelle del pollo, cruda o cotta, ci offre a saperla leggere, un’infinita serie di dati su quel pollo: se ha mangiato bene, se è sano, dove e come è cresciuto, se è stato cotto bene o male.
La pelle della città ci offre gli stessi dati, in modo spontaneo e fisiologico.
Ma come detto la pelle del pollo c’è chi la butta e appunto c’è chi si ostina a coprire le scritte delle città senza capirle e documentarle. E poi ovviamente governa male, pur in una città pulita.
In foto Livorno © Simone Fagioli 2018
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