1.
Il mio articolo “Perché la sinistra perde dappertutto?” ha spinto altri a dire la loro su questo argomento, e la cosa mi fa piacere. Il miglior effetto di un lavoro creativo è di produrre altri lavori creativi, magari oppositivi al primo.
Nel suo commento al mio scritto (https://www.soloriformisti.it/bella-sfida-perche-la-sinistra-perde-e-la-destra-vince/), Mauro Grassi avanza l’idea che la sinistra perde le elezioni perché esige una perfezione che le persone comuni non possono raggiungere. La sinistra sarebbe sconfitta per “la sua proposta di un mondo perfetto, dove tutti sarebbero stati eguali, con eguale ricchezza e potere”. Mentre a destra ci sarebbe più tolleranza per le debolezze umane. Per esempio, dice Grassi, se sei di destra “comprendi” che un proprietario di case preferisca far soldi facendo di queste dei B&B anziché affittarle a immigrati poveri.
In ogni caso, imporre l’eguaglianza a tutti non è chiedere a tutti di essere perfetti, anzi, può risolversi nel chiedere a chi è migliore di abbassarsi all’imperfezione degli altri. Ma credo che Grassi volesse dire questo: la sinistra ci vuole tutti buoni. Ma molti non lo sono affatto.
Eppure ci sono tanti altri casi in cui la sinistra si mostra più tollerante della destra nei confronti degli imperfetti.
Per esempio, la sinistra non punisce chi abortisce. La destra si mostra intollerante nei confronti dei LGBT+, per esempio, esseri che essa considera “imperfetti” ma non per questo scusabili. La destra non perdona chi si droga, anche con spinelli. E così, condannando ogni forma di morte volontaria, il conservatore non ammette che un essere umano voglia sfuggire al dolore o alla disabilità totale. Un tempo, la destra non permetteva nemmeno che un matrimonio fallito si concludesse col divorzio. Insomma, non credo che la linea divisoria tra sinistra e destra passi per una maggior tolleranza o intolleranza nei confronti delle debolezze umane.
L’idea che la destra sia più pragmatica, mentre la sinistra persegua ideali utopici, assume spesso un’altra forma. Alcuni pensatori dicono che chi è di destra è molto più attento a ciò che vede e sente, al mondo concreto che gli sta attorno; mentre chi è di sinistra di solito si ispira a libri, a concetti astratti, al sentito dire, ecc. Ma anche qui mi sembra che la distinzione faccia acqua.
Nel fondo la destra si ispira al trinomio “Dio, patria, famiglia”. È Dio un’esperienza concreta, fattuale? Non è Dio qualcosa di cui si è sentito dire senza mai averlo visto? La fedeltà alla religione del proprio paese o della propria vallata è piuttosto un voler restare attaccati ai valori inculcati sin dall’infanzia, il voler restare nel proprio focolare originario. È la patria qualcosa di concreto? Per la gente comune è più importante la città o la regione di appartenenza che la nazione. Possiamo parlare di “patria indiana” per persone in India che parlano oltre cento lingue diverse, o di “patria” svizzera per persone che parlano quattro lingue e seguono due religioni diverse?
Solo il richiamo alla famiglia pare un riferimento ben concreto. Ma per “famiglia” la destra intende i valori familiari, che spesso sono tutt’altro che pragmatici: implicano l’opporsi agli omosessuali, a chi abortisce, a chi si fa le canne, a chi reclama la morte per non soffrire più, ecc. Da questo punto di vista è invece la sinistra a far appello a esperienze terra terra: la miseria evidente di tanti, il fatto che gli orientamenti sessuali siano diversi, che certe persone sentano il bisogno di drogarsi, ecc.
La differenza, quindi, tra destra e sinistra resta problematica. Anche perché ci sono almeno due destre. C’è la destra liberale pura che certo non crede in “Dio, patria, famiglia”, per la quale esistono solo il mercato, la competizione e l’arricchirsi. E c’è la destra diciamo metafisica, quella della triade suddetta, la destra confessionale, o fascista, o nostalgica della Tradizione e dei re e regine. Che cosa fa sì che votino per Trump sia il cinico broker di Wall Street che il redneck del Middle West che legge sempre la Bibbia? Finora, mai nessuno ha spiegato perché la destra sia così ideologicamente composita, perché accolga principi etici per certi aspetti opposti. C’è molto disorientamento quando si parla di destra e di sinistra.
Non cercherò di risolvere qui la questione di ciò che è essenziale nell’essere di destra e di sinistra. Provo a capire perché in quasi tutto il mondo liberal-democratico la sinistra attiri sempre meno i left behind.
2.
Mi si conceda un’evocazione autobiografica.
Nella mia adolescenza, negli anni 1960, ero un militante della FGCI, la federazione giovanile comunista. Tra gli attivisti c’erano giovani figli della media borghesia intellettuale come me, i saputelli, e giovani operai o piccoli artigiani. Intellettuo-borghesi e operai fraternizzavamo, andavamo a divertirci tutti assieme, anche per fare bisboccia. Da giovani, eravamo tutti squattrinati. La sola differenza era nel fatto che noi intellettuali ci esprimevamo bene parlando in pubblico, mentre i figli dei ceti subalterni avevano problemi a “parlar bene”. Dei destini, tra quelli che ho potuto seguire, di coloro che allora erano i miei amici-compagni, posso dire questo: la maggior parte dei “compagni operai” sono rimasti tali, anche se non tutti poveri, per la grande maggioranza hanno mantenuto il loro status di classi subalterne, per dirla come Gramsci. Quasi tutti i “compagni intellettuali” hanno fatto carriere più o meno prestigiose come professori universitari, giornalisti, esponenti politici. Col tempo, si è constatato che l’avere in comune un progetto politico non ha cambiato i nostri destini inscritti nelle nostre origini sociali, frutto di ciò che dei professori di Chicago hanno chiamato “il capitale umano” – termine entrato ormai nel linguaggio comune. Il capitale umano non è il danaro, ma quello che sin dalla primissima infanzia ci viene trasmesso dai genitori, dai vicini del quartiere, dal fatto che in casa ci siano libri e certi libri, dai film che vediamo nell’infanzia… Devo dire che negli anni 60 si poteva capire già quali giovani di origine umile avrebbero preso l’ascensore sociale in salita: sapevano parlare meglio, in modo meno ingenuo, degli altri della stessa origine. Avrei potuto capire subito quali erano gli underdogs, gli sfavoriti. Il capitale umano non è solo qualcosa che ci viene dal nostro ambiente infantile, è anche qualcosa… che cade dal cielo.
Indubbiamente la visione emancipazionista, oggi detta woke, ha aiutato nel far accedere a posizioni di prestigio individui a cui queste posizioni erano più o meno sbarrate, ma solo alcuni. Usando una terminologia che l’intellighentzia di sinistra aborrisce: i movimenti emancipazionisti possono rimescolare le carte, ma alla fine ci saranno sempre winners e losers. Vincenti e perdenti in tutti i campi socialmente rilevanti: danaro, sapere, amore e potere. È questa la semplice realtà che si dovrebbe riconoscere. E questo vale per tutti gli emancipazionismi: delle donne, dei LGBT+, delle etnie o confessioni religiose sfavorite, degli immigrati, ecc.
Si sa che quelli che oggi sono poveri immigrati, anche in Italia, tra 50 anni saranno distribuiti più o meno tra tutte le classi sociali, dai ricchi ai poveracci. Possiamo già dire che alcune etnie se la caveranno meglio, ovvero gli asiatici (cinesi, filippini…), mentre altre etnie, molto probabilmente mussulmani e africani sub-sahariani, se la caveranno peggio. I sociologi potranno dare varie spiegazioni a queste differenze, comunque esse esistono.
Grazie all’emancipazione femminile, in molti paesi le donne dominano, se non altro come numero, in professioni-chiave, come la magistratura e l’insegnamento. Ma che c’è in comune tra Françoise Bettencourt Meyers, la donna più ricca del mondo, e l’umile impiegata alle poste in un paesino di provincia, anche se quest’ultima si sente emancipatissima? Conosco tante femministe che schiumano d’invidia per altre femministe che, al contrario di loro, sono divenute note scrittrici, parlamentari, professoresse universitarie… E potremmo dire cose simili per i neri americani, per gli arabi francesi, per i meridionali italiani, per gli omosessuali, persino per i dhalit indiani, ecc. Vladimir Luxuria è famosa, prestigiosa e benestante non malgrado, ma grazie al suo essere transgender. E che ha in comune Luxuria con un povero trans in un piccolo centro bigotto e tradizionalista della provincia di Enna? (mi riferisco a una persona reale che ho conosciuto)
In modo alquanto strano, i filosofi della sinistra attaccano la meritocrazia, eppure l’intero progetto emancipazionista è meritocratico fino al midollo. È ottima cosa che, mettiamo, un bambino figlio di poveri contadini, intelligente e studioso, abbia le possibilità di studiare e di diventare “qualcuno”, grazie a borse e aiuti pubblici. Ma che ne sarà degli altri bambini del villaggio, contadini poveri come lui, ma meno intelligenti e meno studiosi? Le politiche emancipative – come è stata l’affirmative action in America[1] – rimescolano certamente le carte sulla base dei talenti individuali, ma senza mai eliminare differenze e sperequazioni. Le quali si affermano sempre per il semplice fatto che ognuno di noi è diverso da ogni altro per ogni capacità, e anche per la fortuna… Alcuni sono più fortunati di altri, perché negarlo?
Scommetto che gli afro-americani di successo, che devono la loro ascesa anche alle politiche di promozione delle minoranze sfavorite, votino quasi compatti per il partito democratico. Ma i tanti neri che non hanno saputo approfittare di queste politiche? O non votano, o sono tentati di votare per esponenti reazionari con lo slogan “America first!”
L’errore è di identificare i left behind sempre a gruppi sociali definiti, mentre si tratta per lo più di individui e famiglie che “non ce l’hanno fatta”[2]. Così come è un errore considerare quelli che chiamo running ahead (chi è all’avanguardia dell’onda dei tempi) rampolli di ceti privilegiati: molti vengono da classi umili, solo che, a differenza di tanti loro simili, “ce l’hanno fatta”. Left behind sono coloro che, per una ragione o per l’altra, sentono di aver fallito, di non aver realizzato quello che sognavano. Costoro non hanno nulla da sperare nel progetto di “più eguaglianza”, perché non sono stati capaci di approfittare delle opportunità date loro. Hanno allora aperte due vie. Una è: menar vanto di quello che sono.
3.
Ho sentito vari intellettuali italiani dire “non so l’inglese, e me ne vanto!” Ho conosciuto un professore universitario che mi ha detto di non leggere più libri da anni e ha aggiunto “…e me ne vanto”. C’è chi dice di odiare certi immigrati e aggiunge “…e me ne vanto”. Ciò che per il metro del successo – che coincide con una certa political correctness – è qualcosa di cui ci si dovrebbe vergognare, viene ribaltato provocatoriamente come motivo di orgoglio. Siccome non si è fatto molto, si ripiega nell’esaltare ciò che si è: essere italiano, essere maschio o essere femmina, essere cattolico, mangiare all’italiana… È una forma di ciò che chiamiamo narcisismo: esser fieri delle proprie magagne. È il dispettoso snobismo di poveri.
Questo spiega il successo dell’estrema destra tra i left behind: questa esalta il narcisismo dei perdenti. Lo ha ben detto Giorgia Meloni quando, nominata primo ministro, ha esaltato il riscatto degli underdog, a cui lei si assimila. E già Gianfranco Fini anni fa aveva rivalutato quelli che a Roma si chiamano coatti, il mondo fringe dell’illegalità povera. Se ho poco di cui vantarmi, vanto la tribù di cui faccio parte.
L’altra via è quella anti-sistema. Per massa anti-sistema intendo coloro che attribuiscono il proprio malessere sociale a Loro. I “loro” sono enti vagamente persecutori non ben definiti, a seconda dei casi possono assumere la forma paradigmatica dei banchieri, dei ricchi, dei capitalisti, dei “poteri forti”, della Chiesa, dei giudaico-massonici, dei radical chic… Gli anti-sistema sono convinti che ci sia qualcosa di marcio nella società, e che questo marcio non è qualcosa a cui loro stessi contribuiscono, ma ci sono dei colpevoli, “loro”. I colpevoli più a portata di mano sono i politici, proprio perché sono stati eletti dalla massa. Si prenda il movimento dei gilets jaunes in Francia: hanno preso di mira il presidente Macron perché era il capro espiatorio più facile da identificare. Ma cosa volevano i gilets jaunes? E anche le sommosse giovanili francesi del giugno 2023, a parte la protesta per l’eccidio del giovane Nahel da parte della polizia, contro chi veramente erano dirette? Perché distruggere scuole, mediateche, depredare supermarket? Certamente la Francia è tra i paesi più industrializzati quello più permeabile alle rivolte anti-sistema, e da tempo i sociologi si scervellano per sapere perché proprio la Francia[3].
C’è un senso di disperazione nelle masse anti-sistema, anche quando vivono nei paesi più prosperi ed egualitari del mondo. Da dove nasce tutta questa rabbia? Non perché le cose vanno sempre peggio nel mondo, come pensano gli sprovveduti. Tutte le statistiche a nostra disposizione ci dicono che per tutte le voci che consideriamo significative c’è un miglioramento nel mondo, da vari decenni a questa parte. Leggo spesso, ad esempio, che la povertà assoluta sarebbe aumentata, mentre è vero il contrario[4].
La percezione diffusa secondo cui tutto andrebbe peggio non è la risposta a un processo oggettivo, ma la reazione a quelle che chiamerei mancate promesse. Promesse di chi? Di quella che chiamerei la narrazione social-liberal-democratica. Quella che oggi domina.
L’ira di massa non è un effetto del neoliberalismo, come ripete lo slogan di tanti intellettuali pigri, perché le nostre società iper-industriali e liberal-democratiche non sono solo il prodotto del capitalismo e del neoliberalismo, ma anche di quella narrazione socialista-democratica o radicale che li critica. Sono il punto a cui sono giunte le nostre società dopo oltre due secoli sia di capitalismo che di anti-capitalismo. E in effetti sia la narrazione capitalista conservatrice che quella social-democratica dicono a ciascun cittadino la stessa cosa: che non ci sono barriere precostituite al fatto che ogni cittadino, anche se nato povero, possa aspirare a far parte delle élites. Le élites di coloro che accumulano potere, sapere, danaro e amore. È quel che Isahiah Berlin chiamò libertà negativa[5]. Ma questa narrazione non potrà mai dire che tutti possono far parte dell’élite, questa è una contraddizione in termini. In qualsiasi campo si formano élite sulla base della spontanea distribuzione di qualsiasi qualità in una popolazione, che tende a prendere la forma della curva di Gauss. Sin da bambini ci insegnano che la sovranità appartiene al popolo, ma che rapporto c’è tra questa sovranità e il fatto che io, parte del popolo, non conti assolutamente nulla? La massa di quelli left behind si sente quindi tradita dalla propria stessa narrazione e accusa “il sistema” del proprio scacco (l’individuo non è riuscito a raggiungere gli scopi che si era prefissato da giovane). La promessa liberal-social-democratica di dare la libertà negativa a tutti viene interpretata nel senso che ciascuno può avere una massima libertà positiva, il che è impossibile.
La sinistra punta insomma su un’emancipazione collettiva, generale, di tutte le donne, tutti i gay, tutti gli immigrati, tutti gli operai, tutti… Ora, l’emancipazione è quella di un individuo, e magari della sua famiglia, che ascende socialmente. Ma ogni ascensore sale verso piani sempre più ristretti… Ogni operaio sa che si emanciperà veramente solo quando… smetterà di essere operaio (diventando magari sindacalista, politico, piccolo imprenditore…). La differenza è là: la sinistra promette un’emancipazione di tutti, la destra spinge verso l’emancipazione individuale[6]. Comunque, alle vecchie ineguaglianze si sostituiranno nuove ineguaglianze. E nel fondo tutti sappiamo che, salvo catastrofi impreviste, sarà proprio così.
[1] A partire dagli anni 1960, è chiamata affirmative action la politica del governo americano di dare più possibilità di studio e di impiego agli afro-americani, politica estesa poi ad altre minoranze svantaggiate.
[2] Ovviamente “quelli che non ce la fanno” tendono a concentrarsi in certe etnie e in certe aree geografiche, e questo per le ragioni storiche più varie. E’ evidente che il talento individuale (o capitale umano) dipende dal contesto sociale in cui si vive sin dall’infanzia. Quel che penalizza un giovane che viene da un ceto subalterno non è tanto il fatto che studiare costi (in certi paesi costa ben poco), ma il fatto che non abbia voglia di studiare.
[3] La Francia è tra i paesi più egualitari, o meno inegualitari, al mondo. Secondo il Gini Index, che calcola il tasso di diseguaglianza di ogni paese, la Francia, con 32,3, è un po’ meno egualitaria dei paesi scandinavi e della Germania (31,9), ma più egualitaria della Svizzera (33,1), della Gran Bretagna (34,8) e decisamente più dell’Italia (35,9), della Russia (37,5) e degli Stati Uniti (41,4). Insomma, le varie insurrezioni francesi non sono dovute a scandalose sperequazioni economiche in quel paese.
[4] Questa discesa è dovuta soprattutto al grande balzo economico di certi paesi asiatici, come Cina India e Vietnam. La povertà assoluta tende invece ad aumentare in Africa, mentre è sostanzialmente rimasta stabile in Europa.
[5] La libertà negativa è il fatto che io possa andare a cenare in un ristorante di lusso anche se sono donna, ebreo, mussulmano, straniero, gay, immigrato, ecc. La libertà positiva è l’avere abbastanza soldi per permettermi quella cena.
[6] Ma anche questa promessa è contraddittoria. La politica considera sempre le cose dal punto di vista generale, per cui non puoi promettere a ciascuno un’emancipazione o un’ascesa sociale – la politica è di per sé collettivista.
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