L’immagine di un uomo anziano che cammina per le enormi sale abbandonate di un edificio popolato da animali di varia specie ha accompagnato a lungo, quasi come una premonizione, l’autore di un racconto che torna di attualità oggi. Il romanzo narra, in uno stile sperimentale, con un timbro onirico e una cronografia volutamente sovrapposta, la fine di un dittatore che ha retto per un periodo di tempo apparentemente interminabile le sorti del suo Paese. Mi è tornata alla mente questa descrizione il 24 giugno scorso, quando la rivolta di Yevgeny Prigozhin e la marcia del gruppo paramilitare Wagner verso Mosca hanno aperto all’improvviso uno scenario del tutto inaspettato e sconcertante, che solo poche ore dopo si è altrettanto repentinamente chiuso. Ma quegli squarci nel velo di una realtà nascosta e, spesso, inconoscibile sono rimasti vividi nella memoria e tracceranno probabilmente il prossimo futuro di un re ormai nudo. Lo storico Shlomo Ben-Ami, vicepresidente del Centro internazionale per la pace di Toledo, ha rilevato che “Prigozhin ha dimostrato di essere meno un pericolo per il governo di Putin che un sintomo della sua intrinseca fragilità”. In particolare, la caduta della principale motivazione dell’invasione russa, con l’ammissione da parte del capo della milizia Wagner dell’assenza di qualunque minaccia ucraina (o della Nato), e la dimostrazione palese della vulnerabilità del “nuovo impero” chiariscono che nessun potere assoluto è eterno. Tuttavia, piuttosto che valutare l’indebolimento o il rafforzamento di Putin nell’immediato, vale la pena di provare a comprendere la solitudine del tiranno e il progressivo crepuscolo di un dispotismo aggressivo, cercando di evitare una nemesi di quel regime ancor più cruenta. Infatti, il feroce Prigozhin, come ha evidenziato Nina L. Khrushcheva, aveva drasticamente criticato le élites russe ben prima dell’insurrezione armata, sostenendo la necessità di “intensificare lo sforzo bellico”, non certo di ridurlo. Per la docente di Affari Internazionali a The New School, il “nuovo Rasputin russo” puntava a sconfiggere i vertici militari che non volevano un’ulteriore escalation della guerra, sapendo di non poterla vincere: “Più combatte, più la Russia potrebbe trasformarsi in un Paese incline a sacrificare tutto – tenore di vita, sicurezza, persino sovranità, mentre diventa sempre più dipendente da una Cina che brama le sue risorse – per soddisfare le ossessioni del suo leader”. La rotta di Prigozhin e la sua fuga, paradossalmente, hanno determinato una recrudescenza del conflitto, con il tentativo di nuovi attacchi e bombardamenti al cuore dell’Ucraina, mentre è in atto una controffensiva per liberare i territori occupati. Inoltre, vi è chi suppone un cambiamento del teatro di battaglia, con uno spostamento delle ostilità al nord, dalla Bielorussia verso Kiev. Perciò, in un contesto tanto ingarbugliato e rischioso, occorre un’azione decisa dell’Europa che, confermando il sostegno all’Ucraina e la lealtà agli alleati occidentali, sia in grado di far muovere anche altri attori sulla scena, in una logica di ripresa del multilateralismo e di una competizione globale, per quanto possibile, regolata. La disfatta dello sciovinismo, la prevalenza degli interessi favorevoli allo sviluppo delle interdipendenze economiche e a una pace giusta non rappresentano un’utopia, se si pensa a quanto scriveva Norman Angell più di un secolo fa, argomentando che la guerra – e non la sua negazione – era una grande illusione. Poi, se si considerano gli anni di straordinario progresso seguiti al secondo conflitto mondiale, questa riflessione assume uno spessore concreto. A parere dell’economista Dani Rodrik, è impraticabile perseguire contemporaneamente la democrazia, l’autodeterminazione nazionale e la globalizzazione. In questo trilemma, solo due delle tre opzioni previste possono essere attuate, allo stesso tempo, all’interno del modello finora predominante. Oggi, però, la transizione verso un nuovo paradigma, interpretando e connettendo queste prospettive quali componenti ineliminabili di una “globalizzazione intelligente”, può permetterne un’ardua composizione. Sempre secondo la Khrushcheva, a Mosca la situazione si è fatta molto più tesa anche di pochi mesi fa: “Ora, come ai tempi di Stalin, i nemici sono ovunque. Amici e vicini parlano l’uno dell’altro e i lavoratori del bar ascoltano di nascosto i loro clienti”. Sembra di leggere le pagine del libro ricordato all’inizio. Quando il dittatore si sentiva “minacciato di morte perfino nella solitudine della sua stanza da letto, e tuttavia governava come se si sapesse predestinato a non morire mai”. Il romanzo è L’autunno del patriarca, torbido e visionario racconto di un tiranno imprecisato, pubblicato nel 1975 da Gabriel García Márquez e trasposto pure in un’opera lirica in sei parti. Oltre a essere il suo scritto più impegnativo e – a suo avviso – meglio riuscito, è tra i capolavori della narrativa dedicati alle vicende del dispotismo. Cesare Segre, commentando il testo di Márquez, ha affermato che: “Il tempo smaschera la presunta eternità, così come la realtà sconfigge le suggestioni e i terrori prodotti con l’inganno”. Il tempo ha una dimensione diversa per chi patisce le sofferenze e per chi ne è l’autore. Ma il tempo delle autocrazie non è infinito e la ragione degli uomini, la libertà e la democrazia possono tornare a far soffiare il loro vento di speranza e di pace equanime.
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