1.
Ho seguito sui media il dibattito che ha preceduto il congresso del PD nel marzo 2023, a cui hanno partecipato in gran numero noti e prestigiosi intellettuali della sinistra. Sono stato colpito dalla vuotezza, banalità e ripetitività di gran parte di questi interventi.
Per esempio, si proclama a più non posso il proprio riformismo, ma cosa significa riformismo? Anche il partito fascista fece riforme… molti partiti vogliono fare riforme, ma quali riforme? La bandiera del riformismo è una scatola vuota, se non si dice chiaramente quali riforme si vogliono.
Per lo più si è fatto ricorso a una critica scontata, secondo cui i dirigenti del PD perderebbero le elezioni perché non ascolterebbero più i loro militanti e la gente comune per dedicarsi a una pura politique politicienne… Come vedremo, quel che dice la gente comune da una parte e quel che dicono i militanti di base dall’altra spesso vanno in direzioni divergenti. Alla base c’è una sorta di pregiudizio socio-metafisico: che la Verità è nel Popolo, che la gente comune ha il privilegio di sapere la verità.
Quanto a me, non perdo occasione di ascoltare la gente comune. E per lo più questa gente, a parte quelli già marcati a sinistra (una minoranza), dice: che ci sono troppi immigrati e che andrebbero rispediti a casa loro; che le tasse sono “un pizzo di stato” e che molti fanno bene a evaderle; che si stanno dando troppi diritti a gay e lesbiche; che non gliene importa nulla dell’Ucraina e non si vede perché dobbiamo rinunciare a gas e petrolio russi; che gli islamici sono troppo diversi da noi e che farebbero bene a tornarsene a casa propria; che c’è troppa criminalità in giro e che ci vorrebbe più polizia per le strade, i magistrati sono blandi e non puniscono abbastanza; ecc. ecc.
Dopo aver ascoltato tutto questo, il PD dovrebbe far proprie queste istanze? Bloccare l’entrata agli immigranti, limitare i diritti dei LGBTQ+, adottare la flat tax voluta da Salvini, andare verso uno stato di polizia, ecc. ecc.? Cesserebbe allora di essere sinistra. Un partito che seguisse pedissequamente le idee che di volta in volta diventano maggioritarie nella massa non sarebbe nemmeno più un partito, ma una cooperativa di demagoghi che sfruttano il vento del momento (e sappiamo che queste cooperative esistono eccome!). Un tempo era la sinistra a proporre una strategia alle masse, non viceversa.
Ora, secondo la stragrande maggioranza delle teste pensanti intervenute nel dibattito la sinistra non-radicale dovrebbe proporre agli elettori questa strategia: 1) una svolta ecologica della società, 2) più eguaglianza, soprattutto economica.
Sulla prima proposta è presto detto: essa non può caratterizzare la sinistra perché – a parte certe sacche negazioniste di destra – la stragrande maggioranza è convinta dell’importanza di salvare il pianeta. È vero che i partiti verdi di solito si situano a sinistra, ma una certa mentalità ecologica ha ormai plasmato le mentalità, tutte le società occidentali virano sempre più verso l’ecologico. La popolarità di Greta Thunberg esprime l’egemonia di questa linea. Insomma, combattere l’inquinamento e il riscaldamento globali non può essere considerato fine qualificante la sinistra. Come non poteva essere negli anni 1980 qualificante per la sinistra definirsi “partito degli onesti” (la famosa ‘questione morale’ di Berlinguer), in primo luogo perché non era del tutto vero, in secondo luogo perché “meno corruzione” è uno slogan che può essere fatto proprio da qualsiasi partito. La destra storica dell’Italia del XIX° secolo era nota per la sua specchiata onestà. Gli anti-fascisti mi dicevano che, tutto sommato, l’Italia fascista era meno corrotta dell’Italia della prima Repubblica.
2.
La seconda proposta – combattere l’aumento delle diseguaglianze – è invece molto più complessa. E soprattutto bisogna capire perché essa non convinca affatto i ceti subalterni e più poveri, i “left behind”, quelli lasciati indietro che sempre più si volgono a destra. Milioni di americani poveri hanno votato Trump, che subito ha regalato enormi tagli fiscali ai più ricchi. Perché?
Ci sono due eguaglianze ben distinte. Una è quella dei diritti, che chiamerei eguaglianza costitutiva. Diritto di voto a tutti, eguali diritti tra uomo e donna anche all’interno della famiglia, diritto di libertà degli orientamenti sessuali, diritto a un’istruzione minima per tutti, diritto di sposarsi e di divorziare, diritto di abortire e di morire come si vuole, ecc. Secondo Marx questi diritti giuridici erano la condizione delle diseguaglianze economiche reali, ma la sinistra oggi sembra pensarla diversamente: essa sostiene i diritti civili.
Ora però, assicurare questi diritti costitutivi non è propriamente un obiettivo della sinistra socialista quanto del liberalism, che scrivo in inglese perché non va confuso con il liberismo economico. Penso a un liberalismo gobettiano, per esempio. Il liberalismo promuove i diritti, incluso il diritto alla libera impresa, e la sinistra non-radicale ha assimilato essenzialmente il liberalismo come cultura dell’eguaglianza costitutiva, detta un tempo formale.
E poi ci sono le eguaglianze che chiamerei d’arrivo: di reddito, di potere, di prestigio. È contro le diseguaglianze economiche che la sinistra di oggi sembra polarizzata, vuole che questo la distingua dalle altre filosofie politiche. La sinistra denuncia instancabilmente la società degli ultimi 50 anni, che ha visto un’indubbia espansione delle diseguaglianze economiche[1]. E in effetti il coefficiente Gini, che misura le diseguaglianze economiche dei vari paesi, lo conferma: la distanza tra ricchi e poveri aumenta. Alcuni filosofi, come Jacques Rancière, hanno creato un pensiero che radicalizza il concetto di eguaglianza[2].
Certo la sinistra non punta a un’eguaglianza assoluta, livellante, punta solo a ridurre le diseguaglianze. Un’eguaglianza assoluta suonerebbe profondamente ingiusta. Ma quel che quasi nessuna delle teste d’uovo della sinistra si chiede è perché, da qualche decennio a questa parte, questo ideale di maggiore eguaglianza convinca sempre meno proprio chi dovrebbe assumerlo per il proprio interesse, ovvero i ceti più poveri e meno colti.
3.
Un dato di fatto incontrovertibile è che nei paesi industrializzati le diseguaglianze di reddito si sono ampliate indipendentemente da chi fosse al governo. Negli ultimi 70 anni, in quasi tutti i paesi liberal-democratici si sono alternati più o meno governi di destra e di sinistra, e i governi di sinistra non hanno impedito l’allargarsi delle diseguaglianze. Questo è divenuto un motivo di accusa contro la sinistra moderata: essa avrebbe accettato supinamente l’ideologia neo-liberale e quindi non avrebbe fatto nulla per limitare il gonfiarsi delle diseguaglianze. Ma si tratta di un’ingenua semplificazione.
L’amplificarsi delle diseguaglianze in gran parte è effetto proprio del gonfiarsi dell’economia: l’espansione del PIL provoca come effetto matematico un espandersi delle differenze. Immaginiamo un palloncino sgonfio con cerchietti rossi disegnati sulla superficie: più il palloncino si gonfia, più la distanza tra ogni cerchietto aumenta. È lo stesso meccanismo dell’universo in espansione di cui parla la cosmologia: le galassie si allontanano le une dalle altre perché tutto l’universo si espande. In economia è un po’ la stessa cosa. Eppure, anche in una società dove le ineguaglianze si espandono, i più poveri potrebbero migliorare costantemente la loro condizione. Non è affatto detto che una società più diseguale abbia più poveri assoluti.
Del resto, un’analisi dei coefficienti Gini mostra che molti dei paesi più egualitari – in particolare i paesi del Nord Europa e il Canada – sono anche tra i più ricchi al mondo (dove maggiore è la qualità della vita)[3], mentre i paesi meno egualitari – per lo più africani – sono anche i più poveri[4]. Questi paesi sono più poveri perché le diseguaglianze sono più accentuate, o le diseguaglianze sono più accentuate perché sono più poveri? Ecco un dilemma che non è facile risolvere.
Quanto all’eguaglianza di genere, particolarmente cara alla sinistra, vediamo che anch’essa è correlata allo sviluppo economico di un paese, ovvero al suo sviluppo capitalistico: più un paese è prospero, maggiore è l’eguaglianza di genere. Tra i primi dieci paesi per eguaglianza di genere sette appartengono al mondo più industrializzato: Islanda, Finlandia, Norvegia, Nuova Zelanda, Svezia, Irlanda, Germania[1].
La semplice verità è che, a meno di non fare ricorso a sistemi dispotici e costrittivi, è molto difficile per il potere politico ridurre le diseguaglianze. La loro espansione è il prodotto di processi molto complessi su cui la volontà politica ha solo moderatamente presa.
Intanto, distinguiamo due tipi di povertà: la relativa e l’assoluta. Questa differenza è essenziale per capire la questione delle diseguaglianze.
Ora, la sinistra sembra interessata soprattutto alla povertà relativa. Mettiamo che in una società il più povero abbia 10 e il più ricco 100. Ridurre la povertà relativa significa ridurre il ventaglio, mettiamo, da 30 a 80. Ma anche da 10 a 30… Il fine essenziale di questo strozzamento delle differenze sembra quello di ridurre al minimo l’invidia sociale.
O invece una società può decidere che chi ha meno di 30 è povero in assoluto, ovvero, pensa che se si ha meno di 30 non si possa vivere in modo dignitoso. In Italia, per esempio, si è stabilito che è povera una famiglia di due persone che guadagni meno di 1050,95 euro al mese[5]. Ora, una parte della destra è sensibile a queste povertà assolute, che cerca di mitigare con una serie di iniziative pubbliche e private, ad esempio attraverso il welfare, come lo chiamano in America, ovvero attraverso un reddito minimo dato a chi è estremamente povero (‘reddito di cittadinanza’ in Italia). In una democrazia, la povertà assoluta è un problema per tutti, non solo per la sinistra. Mentre la destra non è interessata a diminuire le povertà relative.
Ora, immaginiamo due società con due diverse distribuzioni delle diseguaglianze. In una società A il più povero ha 10 e il più ricco ha 1000, ovvero il ventaglio della diseguaglianza va da 1 a 100, il più ricco è 100 volte più ricco del più povero. In una società B il più povero ha 1 e il più ricco ha 50, ovvero il ventaglio della diseguaglianza va da 1 a 50. La società A è meno egualitaria della B ma è più ricca; la società B è più egualitaria ma molto meno ricca. Inoltre, il più povero nella società B (meno egualitaria) è 10 volte più povero del più povero nella società A (più egualitaria).
Quale delle due società è preferibile?
Se essere di sinistra è preferire la società B, allora è chiaro: io non sono di sinistra.
Il criterio che preferisco è quello per cui una società è migliore di un’altra se il più povero in essa sta meglio del più povero in quell’altra società. È questo il criterio, molto semplice, proposto dal filosofo John Rawls[6]. Per un certo tempo la sinistra non-radicale aveva fatto proprio il modello di Rawls, ma ho l’impressione che negli ultimi tempi lo abbia abbandonato.
Insomma, un criterio di maggiore eguaglianza possibile non può essere il criterio primario. E non a caso non interessa nemmeno ai più poveri nelle nostre società. I più poveri vogliono essere meno poveri, uscire dalla povertà, non è detto che vogliano un coefficiente Gini più basso. Per i poveri l’importante non è che i ricchi siano meno ricchi, importa che loro siano meno poveri[7]. Minor diseguaglianze è un fatto statistico, non tocca il cuore.
Qualcuno dirà: “per rendere i più poveri meno poveri occorre che i ricchi siano meno ricchi”. Abbiamo appena visto che questo non è affatto detto. E’ pur vero che lo stato, comunque, svolge oggettivamente una funzione redistributiva, se non altro attraverso le tasse.
4.
Ma ammettiamo che diminuire le diseguaglianze, innanzitutto economiche, sia un obiettivo politico ottimale, da perseguire a ogni costo. Come riuscire a diminuirle?
Di solito il potere politico, a meno di non imporre un’eguaglianza forzata con metodi stalinisti, ha pochi modi per diminuire le diseguaglianze:
(a) l’imposizione fiscale progressiva[8];
(b) l’innalzamento del salario minimo;
(c) l’elevazione del livello culturale dell’intera popolazione;
(d) forme di assistenza specifica ai più poveri (come il reddito di cittadinanza).
Eliminiamo subito il (d), dato che le destre, anche se spesso con riluttanza, lo accettano. In quasi tutte le società più ricche esistono forme di assistenza statale ai più poveri, e a chi non può lavorare per disabilità varie (in Italia, pensioni di invalidità).
L’imposizione fiscale progressiva. Sarebbe una politica alla Robin Hood, togliere ai ricchi per dare ai poveri, colpendo con tasse altissime le grandi ricchezze.
Questo sistema funzionerebbe, però, se tutti gli stati, o almeno quelli più industrializzati, lo installassero allo stesso tempo. Se lo stato del paese X colpisce i più ricchi con tasse troppo alte, costoro troveranno il modo di portare i loro capitali all’estero, impoverendo quindi globalmente la società X. Come accadde con Gérard Depardieu, che è divenuto cittadino russo dopo che la presidenza Hollande in Francia alzò le tasse ai ricchi fino al 75% del loro reddito… La grande ricchezza di paesi che si sono offerti come paradisi fiscali – isole Cayman, Lussemburgo, Svizzera, Paesi Bassi, Hong Kong… – è dovuta all’afflusso di capitali da parte di paesi con un fisco più o meno ‘infernale’. Inoltre, se le tasse sui capitali fossero troppo alte, gli investimenti stranieri cesserebbero, mentre la prosperità di un paese è legata proprio al fatto di attirare investimenti, anche stranieri. Insomma, tassare molto i più ricchi porterebbe forse a più eguaglianza, ma impoverirebbe l’intero paese.
Bisogna tener conto comunque del fatto che una tassazione molto alta delle ricchezze non trasferisce queste direttamente ai più poveri, perché lo stato per lo più utilizza le risorse fiscali per aumentare i beni comuni: ospedali, infrastrutture, scuola… Ma il povero si considera tale non tanto quando manca di beni comuni, quando ha un reddito personale molto basso. La tassazione dei più ricchi non gli dà quindi vantaggi immediati e quantificabili per sé.
Innalzamento del salario minimo[9]. Anche in questo caso l’imposizione di un salario minimo troppo alto, rispetto alle possibilità di un paese, rischia di divenire un boomerang, ovvero di acuire le povertà anziché attutirle. Se si stabilisce un salario minimo troppo alto, molti datori di lavoro finiscono col ricorrere al lavoro nero, che di fatto crea due fasce di lavoratori: una fascia ‘protetta’ di persone con regolare contratto con redditi decenti, e una fascia ‘nera’ di persone che lavorano senza contratto, alla giornata (gig economy). Gli imprenditori tenderanno comunque a limitare le assunzioni, perché queste costerebbero troppo, il che avrebbe l’effetto di deprimere la produzione e di allargare l’area della disoccupazione. Super-garantire gli occupati porta a rendere più difficile la lotta alla disoccupazione.
L’elevazione del livello culturale dell’intera nazione[10]. La consapevolezza che un alto livello di istruzione sia una garanzia anche di livelli di reddito più elevati ha portato, negli anni 1990, al famoso slogan di Tony Blair: “Education, education, education”. L’idea non-detta è che i lavori poveri, ovvero a bassa produttività, dovrebbero essere sempre più riservati ai paesi in via di sviluppo, mentre i paesi più industrializzati dovrebbero puntare a un’alta produttività, resa possibile da un livello molto alto di istruzione. Più una popolazione è colta, più essa è produttiva, più le fasce di povertà si assottigliano. Per esempio, nei paesi più ricchi si progettano auto, e le si costruisce materialmente in Nigeria o in Iraq. Questa idea implica una certa povertà dei paesi produttori, in via di sviluppo. Del resto, i paesi più industrializzati, imponendo la scuola dell’obbligo fino a 16 anni di età od oltre, forzano anche le fasce di popolazione più incolta a usufruire di un minimo di istruzione. L’istruzione obbligatoria è certamente una misura illiberale (perché lo stato obbliga anche contro la volontà dei singoli) che permette l’elevazione generale del livello di vita di una nazione. Ma questo non porta necessariamente a un appiattimento delle diseguaglianze. Tutt’altro.
Nella misura in cui il livello minimo di istruzione generale si eleva, per raggiungere le posizioni di lavoro più alte i giovani devono allungare sempre più il loro corso di studi. Decenni fa per raggiungere posizioni dirigenziali bastava una laurea, oggi invece occorre andare oltre: prendere master specifici, dottorati, intraprendere corsi di specializzazione, ecc. Proprio perché sempre più persone prendono una laurea, la laurea si dequalifica come titolo, insomma, occorre accumulare titoli sempre più alti per poter raggiungere posizioni apicali. Questo significa che raggiungere i livelli più alti di istruzione costa sempre di più, in termini economici e di tempo. Ma nella misura in cui si moltiplicano i titoli intermedi, si moltiplicano anche i dislivelli di reddito. L’aumento dell’istruzione generale è certamente un’ottima cosa, ma genera altre forme di diseguaglianze: non più analfabeti versus istruiti, ma meno-istruiti versus più-istruiti.
Tutti sanno che i titoli scolastici non bastano: quando si entra nel mercato del lavoro, conta anche la rete di relazioni sociali che permette di entrare in una carriera. Così tra due laureati mettiamo in giurisprudenza, che hanno avuto la stessa votazione alla laurea, uno, essendo figlio di avvocati, entrerà subito nella filiera giusta avendo già il terreno preparato dalla famiglia; l’altro, essendo figlio di contadini, avrà invece enormi difficoltà a trovare un impiego degno del proprio livello di studi. L’istruzione non è competitiva: se ho il massimo dei voti, non tolgo voti a qualcun altro. Nel mondo del lavoro invece il gioco è competitivo: se riesco a farmi assumere, molti altri non avranno quel posto. Insomma, l’istruzione aumenta il livello medio della cultura e del reddito, ma crea per altri versi altre diseguaglianze.
Tutti questi sono esempi banali di eterogenesi dei fini[2]; cosa espressa dal proverbio “la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni.” Non basta volere il bene per ottenere il bene. Non basta volere più eguaglianza per ottenerla de facto. I sistemi sociali si mostrano sempre più complessi delle narrazioni politico-filosofiche che pretendono di descriverli e controllarli.
5.
Col tempo le masse dei vari paesi industrializzati hanno capito, per una sorta di esperienza inconsapevole accumulata, che non sarà la sinistra ad elevare il loro status sociale relativo. Non perché la sinistra non ne abbia veramente la volontà, ma perché non ne ha veramente gli strumenti.
Del resto le ineguaglianze che contano non sono solo economiche, ma anche di potere e di prestigio. A cui aggiungerei anche le diseguaglianze nel successo amoroso[11]. Ci sono tante persone che godono di un buon livello economico, ma soffrono di una carenza di prestigio, di potere e di amore. O viceversa.
Nella mia adolescenza assistetti a una discussione politica tra ragazzi. Il ragazzo di destra diceva: “Se sono più bravo di te, merito un’auto più bella e grande della tua”. Al che il ragazzo di sinistra: “Se sono più bravo di te, voglio un’auto come la tua”. Quale opzione preferire? Ma il vero problema è un altro. “Essere più bravo di un altro” non è una qualità intrinseca, è un riconoscimento sociale. Se gli altri mi considerano più bravo di te, godo di maggior prestigio di te, e questo è di per sé un’importante diseguaglianza. Lo stato può anche costringere tutti ad avere una stessa auto, non può però costringere uno più bravo a essere meno bravo di un altro, e questo per me, più bravo, può essere quel ‘di più’ che mi basta. Il populismo oggi non è di sinistra[12] non perché non dica “a tutti la stessa auto” ma perché dice “chi decide chi sono i più bravi? Lo decidiamo noi!”
I criteri del prestigio certamente variano da gruppo sociale a gruppo sociale, ma sappiamo bene quali élite oggi godano del massimo prestigio: sono le élite spettacolari, le epistemiche, le economico-imprenditoriali e le politiche. Che corrispondono ai quattro valori sociali fondamentali: notorietà, sapere, danaro e potere[13].
Per élite spettacolari intendo tutte le celebrità popolari: cantanti e musicisti pop, scrittori e filosofi famosi, attori e attrici del cinema e della tv, giornalisti di grido, grandi influencers, star dello sport… I membri delle élite epistemiche invece possono anche non essere noti al grande pubblico (a meno che non diventino star televisive o non vincano un Nobel), ma godono del prestigio di sapere: sono professori universitari, scienziati, esperti in vari campi… Li si chiama “professori” e li si ascolta (ancora) con un certo rispetto. Quanto alle élite economico-imprenditoriali, sono “i capitalisti” di un tempo: grandi finanzieri o grandi imprenditori, magari non noti al grande pubblico, ma invidiati per le loro ricchezze.
Di queste quattro le più odiate, come è noto, sono le élite politiche, perché si attribuisce loro uno sterminato potere, per lo più immaginario. Sono invidiate e disprezzate allo stesso tempo perché in una democrazia esse vengono elette direttamente dal popolo. Il popolo in fondo non stima affatto sé stesso, per cui non stima uomini e donne che ha eletto. Tranne forse quei pochi che l’elettore ha direttamente votato.
Oggi tutte le ricerche ci dicono che il voto di destra, che è sempre più voto di destra estrema, di fatto neo-fascista, nei paesi industrializzati tende a concentrarsi nei ceti meno abbienti e meno prestigiosi, tra i left behind[14]. Vota per Trump, o per la Brexit, o per Le Pen, o per Giorgia Meloni, o per Erdogan, ecc…. chi vive in campagna o nelle piccole città, chi ha un livello di istruzione più basso, chi è anziano e soprattutto anziano maschio. Il livello economico non è affatto l’unica variabile che spieghi il voto di destra radicale: questa attira chi più si sente lasciato lontano dalle élite spettacolari, epistemiche e politiche. Vivere lontani dalle grandi metropoli, per esempio, provoca un rancore invidioso che si esprime nel voto di destra.
Decenni fa, negli anni attorno al 1968, si era diffusa in una certa sinistra radicale l’idea che l’emancipazione dei ceti subalterni non potesse essere solo economica, ma culturale in senso lato. Occorreva dare la parola agli umili, ai tacitati. Rivalutare le forme di espressione popolare, particolarmente in musica. Dare fierezza, insomma, a chi non contava nulla. Questo progetto in parte è riuscito: oggi tutti si esprimono, in modo anche aggressivo, sui social media, nelle chat, nelle radio e tv locali… Ma la libertà di parola acquisita non ha certo fatto diminuire le diseguaglianze di prestigio. La maggior parte delle persone sanno bene di sapere ben poco, anche delle cose su cui devono esprimersi (come la vita politica); di non avere alcuna visibilità, se non al bar dello sport o al pub o nella piazza del paese; di non produrre nulla che abbia un grande valore economico; di essere lontani da chi ha potere politico. Sanno di fare un lavoro di routine e non creativo. Possono godere di grande prestigio tra amici, ma in società dove la notorietà si calcola in milioni – di copie, di ascoltatori, di citazioni, di ammiratori, di dollari… – costoro sanno di essere ai margini. Questo senso di essere irreparabilmente left behind porta al voto di destra.
Irreparabile perché in ciò che dà prestigio non ci può essere eguaglianza. I grandi artisti, i grandi compositori, i grandi atleti, i grandi scienziati… saranno sempre in numero molto ristretto. Per esempio, ci sono stati e ci sono tanti filosofi che pubblicano, molti sono anche eccellenti, ma quanti di questi leggiamo e finiranno nelle storie della filosofia? Nemmeno lo 0,1%. L’alta qualità è per essenza rara, altrimenti non la percepiremmo come alta qualità. Anche se tutti cantassimo benissimo, ben pochi arriverebbero al livello di Maria Callas o di Placido Domingo. Il prestigio non è democratico. Ma gli esseri umani non vivono di solo pane, anche la stima, il prestigio, l’affetto altrui… sono pane per le nostre anime. E a questo bisogno non-alimentare di eccellenza la sinistra non ha alcuna proposta da fare. Si dirà: ma nemmeno la destra può certo promettere a tutti l’eccellenza nel sapere, nel potere, nell’amore, nella celebrità. Ma appunto, non promette nulla, quindi, non la si può rimproverare di non mantenere le proprie promesse. La sinistra promette troppo alle masse, e quindi le è facile deluderle.
6.
Gran parte della sinistra non-radicale si è resa conto che non è affatto semplice ridurre le diseguaglianze; e anche che non è un progetto da affascinare le masse. Per cui, alla fin fine, essere di sinistra oggi è battersi soprattutto per i diritti civili e per l’integrazione degli immigrati. Ovvero, tutta la sinistra non radicale è divenuta di fatto pannelliana o boniniana, diremmo in Italia: liberale di sinistra. Non potremo dare a tutti eguale sapere, potere, danaro, fama e amore, potremo però assicurare i diritti a chi ancora ne ha meno: alle donne, agli LGBTQ+, alle minoranze etniche e religiose, agli immigrati… Da qui l’enorme importanza che hanno per la sinistra, in Italia, le battaglie come lo jus solis contro il jus sanguinis, le leggi contro l’omofobia, le unioni civili, ecc. Oppure per la conversione ecologica dell’economia. Tutte battaglie che non incidono affatto su quelle che ho chiamato diseguaglianze di arrivo. Riforme a costo zero o quasi.
In questo modo il voto per la sinistra non-radicale è divenuto il voto tipico dei ceti impiegatizi medio-alti, dei ceti culturalmente dominanti, a cominciare dagli insegnanti. Mentre il voto di destra è divenuto sempre più il voto tipico dei ceti subalterni, anche se non per questo dominati. Il rovesciamento di quello che era fino a pochi decenni fa. Il voto a sinistra è sempre più voto delle metropoli, delle élites intellettuali, dei giovani, delle donne in carriera, di chi ha studiato, di chi è andato nelle migliori università dove domina una sorta di neo-marxismo post-strutturalista… Questo significa che ormai è la sinistra, anche quando perde le elezioni, a dominare di fatto la società di oggi, perché sono sempre i ceti più ricchi, più colti, più influenti, più aperti a guidare lo sviluppo delle società. Chi è di sinistra è convinto che il mondo che conta sia del tutto egemonizzato dalla destra (neoliberale, conservatrice, capitalista…), mentre chi è di destra è convinto che il mondo sia oggi egemonizzato dalla sinistra e dai suoi valori. Entrambi hanno ragione ed entrambi hanno torto. La verità è che la nostra società è il risultato di pressioni divergenti, anche di istanze di sinistra e di destra, un risultato sempre instabile e provvisorio.
È un fatto che nella storia hanno dominato sempre delle élites, spesso anche solo intellettuali. Furono i mandarini, ovvero la burocrazia colta cinese, a fare grande e prospera la Cina di un tempo, non sarebbero certo bastati i coltivatori nelle risaie. A partire dal IV° secolo d.C. furono i ceti dirigenti romani a imporre, con Costantino, il cristianesimo all’impero, anche se i cristiani non erano più del 10% di chi aveva la cittadinanza romana[15]. Direi quindi che, proprio nella misura in cui oggi la sinistra diviene sempre meno popolare, essa risulta sempre più dominante, perché è sostenuta dai ceti dominanti. Certamente la sinistra si vuole molto democratica, ma di fatto il voto democratico l’abbandona. Da qui l’imporsi, poco a poco, di un liberalismo anti-democratico[16].
Talvolta questa espressione dei ceti dominanti non si dice nemmeno sinistra. È il caso di Macron, eletto due volte presidente prendendo le distanze sia dalla sinistra che dalla destra classiche. È anche il progetto del terzo polo (Calenda e Renzi) in Italia, ma anche di dirigenti del PD come Letta. Trovo significativo che il Partito Democratico della Sinistra (PDS) si sia poi ribattezzato PD (Partito Democratico) eliminando quindi il riferimento alla sinistra.
I punti salienti di questa sinistra moderata o ex-sinistra o pseudo-sinistra sono:
- a) fedeltà atlantica agli Stati Uniti contro le moderne autocrazie e teocrazie (Russia, Cina, Iran)[17]
- b) globalizzazione della cultura e dell’economia, estinzione progressiva degli stati nazionali
- c) europeismo, in un’Europa forte e autonoma
- d) allargamento dei diritti civili a chi non ne ha o ne ha pochi
- e) apertura all’immigrazione e integrazione degli immigrati
- f) rafforzare la capacità dello stato di influire sull’economia, rendendola coerente con le grandi scelte strategiche politiche
- g) distacco completo della società civile e politica dalle ipoteche religiose
Questo è oggi anche il programma dei ceti dirigenti delle società liberal-democratiche più industrializzate. Questo discende da una concezione essenzialmente anti-autoritaria, liberal-libertaria in senso lato. Diciamo che è la politica anti-autoritaria delle persone autorevoli. A cui si contrappone la tendenza delle persone poco autorevoli verso concezioni autoritarie.
Ci si chiederà perché questa visione anti-autoritaria finisca col convincere anche chi ha potere economico, imprenditori e capitalisti. È che il capitalismo moderno è cosmopolitico, e la sinistra moderna parte da presupposti cosmopolitici. Le grandi industrie di punta, come il GAFAM[18], puntano su un mondo unificato e quindi liberato dalle narrazioni regionali, dalle barriere religiose ed etniche. Inoltre l’industria moderna si rivolge a tutti, e quindi assume i valori democratici che sono alla base di ciò che vien chiamato consumismo. L’industria di punta oggi è nelle comunicazioni, e la comunicazione è essenzialmente anti-autoritaria.
L’atteggiamento nei confronti degli immigrati è rivelatore di questa coincidenza tra sinistra e classi imprenditoriali. La sinistra classica idealizza l’epopea dell’immigrazione perché vede gli immigrati come il nuovo proletariato, anche se, purtroppo, gli immigrati di solito non votano, mentre votano le masse xenofobe. Ma anche gli imprenditori sono per l’immigrazione, perché hanno bisogno di una mano d’opera che scarseggia in paesi sempre più educati-educati-educati; inoltre gli immigrati indubbiamente mantengono bassi i salari perché si accontentano di paghe più basse[19]. La sola alternativa agli immigrati sarebbe la delocalizzazione delle industrie nei paesi in via di sviluppo, il che sarebbe un danno anche maggiore per i lavoratori dei paesi industrializzati, anche se un vantaggio per i paesi in via di sviluppo. Per tutte queste ragioni sia gli imprenditori che la sinistra si trovano sulla stessa lunghezza d’onda quanto all’immigrazione.
7.
Ma perché questa indifferenza delle masse dei non-autorevoli nei confronti dell’eguaglianza le porta ad accettare parole d’ordine e visioni di estrema destra? Perché queste masse brontolano sempre di più contro una cultura ormai dominata dalla sinistra non-radicale? Il paradosso è che una grande industria della cultura come Hollywood sforna sempre più film liberal, anti-razzisti, femministi, pro-LGBTQ+, libertari e libertini, di esaltazione degli handicappati e degli oppressi[20]… e chi li vede pensa sempre più a destra. Rispetto a media dominati dalla correttezza politica (di sinistra), il brontolio “scorretto” delle masse assume sempre più una forma catacombale. Gli “orrori” che si leggono sui social sono solo l’emersione alla superficie di una cultura del brontolio catacombale che è sempre esistita.
I valori della destra che sembrano sempre più attrarre i ceti “lasciati indietro” sono: la priorità della propria “identità” regionale, etnica religiosa o linguistica che sia; la riaffermazione dei costumi religiosi tradizionali; la diffidenza nei confronti degli immigrati e in generale delle etnie più o meno estranee; la riaffermazione dei ‘valori familiari’, ovvero il rigetto degli orientamenti sessuali “contro-natura” e la valorizzazione della famiglia nucleare; un’esigenza di ordine e disciplina, soprattutto nei confronti degli altri…; la diffidenza nei confronti della cultura scientifica politica e filosofica dominante (no-vax, terrapiattismo, negazionismi vari…); rifiuto di assistenza pubblica a chi non lavora; fascino per le teorie complottiste.
Che cosa unisce tutti questi aspetti reazionari, e che cosa spiega la loro attrazione sulle masse che si percepiscono come lasciate indietro? Direi che la caratteristica comune a tutti questi aspetti è il loro non costar nulla… Si idealizza non qualcosa che si vorrebbe diventare, ma ciò che già si è per diritto di nascita. Ciò che ci è stato dato gratuitamente viene elevato a qualità di cui menar vanto. L’esser nati in una nazione piuttosto che in un’altra, l’esser stati educati a un certo credo religioso e a certi ideali familiari, ecc., viene esaltato come propria qualità positiva anche se immeritata. La sola ricchezza che si può permettere chi è stato left behind è una ricchezza patrimoniale ereditata. Come certe persone vivono della bella casa che è stata lasciata loro da un genitore e non fanno altro, analogamente il narcisismo dei lasciati indietro è un vantarsi di quel hanno ricevuto dal caso, non di quel che hanno prodotto. Invece la sinistra da un paio di secoli promette un percorso di emancipazione che prevede lotte, lacrime e sangue; le classi inferiori devono affermarsi attraverso un grande sforzo anche individuale. Mentre i valori della destra non implicano alcuno sforzo: si idealizza quel che si è. L’auto-stima non si basa sul raggiungimento di certi obiettivi e nemmeno sull’averli perseguiti, ma semplicemente sulla posizione alla nascita. Chi vira a destra è come se dicesse a sé stesso “non sono nulla di speciale… e me ne vanto”. Ma questo implica l’ostilità nei confronti di chiunque sia qualcosa di speciale, soprattutto i politici, dato che sono in una posizione elevata “grazie a me”.
Del resto alla base della democrazia c’è l’idea che ciascuno di noi è eguale all’altro, dato che ciascuno di noi vale un voto. “Gli elettori hanno sempre ragione” si dice stupidamente, come per il negoziante il cliente ha sempre ragione. Siamo immersi in una demagogia democraticista che dice a ciascuno “la tua opinione è sacra!” Quindi, uno si dice, che differenza c’è tra le mie opinioni e quelle di uno scienziato foss’anche premio Nobel? Se le persone autorevoli dicono che la terra è tonda e noi stiamo riscaldando il pianeta, anche io ho l’autorità di dire la mia, che la terra è piatta e che non è vero che il pianeta si surriscaldi. Se in UK quasi tutti i partiti politici mi dicono che lasciare l’Europa sarebbe un disastro, allora voterò per la Brexit. Se quasi tutti i politici e i politologi mi dicono che occorre aiutare l’Ucraina contro l’invasione russa, ebbene, io sarò per Putin! Interpreto il fatto che il mio voto valga uno come quello dei maggiori esperti in termini narcisistici: che la mia opinione vale quanto quella di qualsiasi altro[21]. In democrazia non vale l’opinione autorevole, vale l’opinione e basta. Tutta la narrazione democratica mi dice “la tua opinione è essenziale”, quindi la mia opinione è essenziale quanto quella di qualsiasi altro. Allora cercherò di pensare in modo inverso a quel che pensano le élite oggi autorevoli: sarà xenofobo, omofobo, conservatore, anti-scienza, bacchettone, anti-femminista, nazionalista….
8.
Per finire, è sbagliato dire che i dirigenti di un partito di massa devono ascoltare i propri militanti e la gente comune, dando così per scontato che i militanti siano essi stessi gente comune. Quando da ragazzo ero iscritto al partito comunista, notavo che i militanti erano tendenzialmente più rigidi e meno disposti ad accettare chi non la pensava come loro, rispetto ai propri dirigenti. Il dirigente di un partito di massa sa che deve guadagnare il consenso di chi non la pensa come lui, della gente comune. Se un partito è di sinistra, vince solo se riesce a conquistare il voto di ampi margini di persone che non si sentono di sinistra. Il dirigente è quindi deve avere una certa malleabilità per seguire i venti del momento. Il militante di base non ha di queste preoccupazioni, anzi, lui si demarca rispetto agli altri – parenti, amici, colleghi – proprio per il carattere forte, distintivo, delle proprie opzioni politiche. Per lei o lui militare è una questione di identità sociale, mentre il dirigente mira alla vittoria. Il militante è di solito qualcuno che ha vite familiari e professionali ben lontane dal furore politico, per cui la militanza è il suo angolo eroico di vita, un marchio distintivo di élite rispetto al grigio tran tran del quotidiano; ha bisogno di declamare la propria differenza. Se la sua identità politica si diluisce in battaglie non fortemente identificative, essa perde di senso ai suoi occhi. Per cui un dirigente, se vuole vincere le elezioni e non limitarsi a coalizzare chi la pensa come lui o lei, deve ascoltare fino a un certo punto quel che dicono i militanti. Di solito, deve convincerli a essere “più ragionevoli”. Ma la massa dei left behind non vuole essere ragionevole, vuole sognare. E il sogno consiste sempre nel negare la realtà.
Note
[1] Da qui lo straordinario successo del bestseller di T. Piketty, Il capitale nel XX° secolo, Bompiani, 2014.
[2] L’odio per la democrazia, trad. it. di Antonella Moscati, Cronopio, Napoli 2007.
[3] Oggi la “qualità della vita” viene calcolata come Indice di Sviluppo Umano (ISU), combinando tre fattori: le aspettative di vita alla nascita, il grado di alfabetizzazione degli adulti e il tasso d’iscrizione a scuola, e il potere d’acquisto reale pro capite. Tra i 20 paesi col Gini più basso al mondo, quindi più egualitari (tra 2017 e 2021) troviamo per lo più o ex-paesi comunisti o paesi a capitalismo molto sviluppato (ai primissimi posti Svezia, Ungheria, Norvegia). https://www.indexmundi.com/facts/indicators/SI.POV.GINI/rankings
[4] Il paese con le maggiori diseguaglianze al mondo è il Sud Africa. Tra i primi 20 paesi con le diseguaglianze più alte troviamo 12 paesi africani, 4 paesi arabi asiatici e petroliferi, 4 paesi latino-americani (Messico, Brasile, Cile, Colombia). Nessun paese europeo.
[5] Soglia stabilita nel 2015. Questa cifra minima sale man mano che aumentano i membri della famiglia.
[6] Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 2008.
[7] Proprio siccome le società sono di solito in espansione economica, la redistribuzione della ricchezza non è un gioco a somma zero. Quel che lo stato prende al ricco per dare al povero può essere più che compensato da maggiori guadagni da parte del ricco, per cui le diseguaglianze possono restare invariate.
[8] Un’imposta viene definita progressiva quando l’aliquota media aumenta all’aumentare della base imponibile, ossia quando l’aliquota marginale è maggiore dell’aliquota media. In Italia le aliquote variano dal 23% al 43%. Fra gli stati con più marcato grado di progressività troviamo Belgio, Francia e Portogallo. Non si tratta di paesi marcati come specialmente di sinistra.
[9] Il salario minimo in Italia è di 9,00 euro l’ora. In Europa i paesi col salario minimo più alto, sono, nell’ordine: Lussemburgo (12,30 euro), Germania (12,00), Francia (10,15), Paesi Bassi (10,14). Quelli col salario minimo più basso sono paesi ex-socialisti: in discesa, Romania, Lettonia, Bulgaria.
[10] Uno dei sistemi per calcolare il livello di istruzione di un paese è la media PISA. I paesi col livello di istruzione più elevata sono quelli a più alto sviluppo industriale, in ordine discendente: Singapore, Islanda, Canada, Svezia, Danimarca, Slovenia, Francia, Norvegia. Ai livelli più bassi di istruzione, in ordine discendente: Romania, Indonesia, Repubblica dominicana, Panama, Giordania.
[11] Mi rifaccio qui agli strumenti di comunicazione sociale secondo Niklas Luhmann, che consistono rispettivamente nel denaro, nell’amore, nella verità e nel potere. Cfr. M. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, Bologna, Il Mulino, 1990; Teoria della società, Milano, Franco Angeli, 1991; Potere e complessità sociale, Il Saggiatore Tascabili, 2010.
[12] Alcuni partiti di sinistra sono chiamati populisti, come Podemos in Spagna e il Movimento 5 stelle in Italia, e ci si chiede perché. Di fatto sono la nuova sinistra radicale, che spesso non vuole farsi chiamare così.
[13] Rispetto agli strumenti di comunicazione di Luhmann, al posto dell’amore metto la notorietà, anche se spesso le due cose coincidono. Ma si tratta di uno scostamento qui solo strumentale alla mia argomentazione.
[14] A. Marchesi, “Voting Patterns in Western European Countries. Class-Party Family Alignments and Their Mediation by Political Values”, Front. Polit. Sci., 31 May 2022.
[15] P. Veyne, Quando l’Europa è diventata cristiana, Garzanti, Milano 2008.
[16] Y. Mounk, The People vs. Democracy: Why Our Freedom Is in Danger and How to Save It, Harvard University Press, 2018. The Great Experiment: Why Diverse Democracies Fall Apart and How They Can Endure, Penguin Press, 2022.
[17] E’ notevole che l’elettorato del PD è quello che, più di qualsiasi altro, nel 2022 si è dichiarato favorevole all’aumento della spesa per la difesa fino al 2% del PIL, per l’invio di armi all’Ucraina, per l’atlantismo NATO… Trent’anni fa sarebbe stato il contrario.
[18] Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft.
[19] Questo fino a un certo punto. Nel nostro mondo globalizzato, i salari dei paesi più industriali tendono ad abbassarsi verso quelli cinesi. Per fortuna però i salari cinesi si alzano, ragion per cui si dovrebbe arrivare a una parità tra salari cinesi e occidentali; con questa parità, la Cina perderà tutto il suo vantaggio competitivo.
[20] Contrariamente a quanto si cerca di farci credere, il mondo dello spettacolo americano è egemonizzato da creatori di sinistra. I blockbusters americani rigurgitano di propaganda edificante. Eppure vince Trump…
[21] Cfr G. Orsina, La democrazia del narcisismo: Breve storia dell’antipolitica, Marsilio Editori, Venezia, 2018.
[1] Dal Global Gender Gap Report, World Economic Forum, June 2023. Tra i primi 10 troviamo anche Namibia, Rwanda, Nicaragua. Il gender gap italiano è molto alto, l’Italia è solo 63% tra 156 paesi.
[2] Enciclopedia Treccani: “Principio formulato da Wilhelm Wundt, secondo il quale le azioni umane possono riuscire a fini diversi da quelli che sono perseguiti dal soggetto che compie l’azione”.
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