Dopo che il fenomeno del nuovo antisemitismo è esploso inaspettato sul mondo contemporaneo, adesso è scoppiata anche la guerra (interessata) sulla sua definizione: le conseguenze politiche sono grandi, coinvolgono il rapporto con le istituzioni mondiali e locali, con l’Onu, l’Ue, le città e le scuole, riguardano il modo in cui si guarda Israele e se si intende considerare antisemitismo l’odio indefesso per lo Stato degli Ebrei. L’unica definizione funzionante che fino ad ora è stata elaborata è quella dell’International Holocaust Remembrance Alliance (Ihra) raggiunta dopo decenni di discussione in tutte le massime istituzioni. Prima, era uno scontro e un nulla di fatto continuo: sei antisemita se sei contro la religione ebraica? No, perché gli ebrei sono un popolo. E se sei contro il popolo ebraico? No, perché sono una religione. E così si è andati avanti mentre cresceva l’antisemitismo per decenni. All’Onu si scontravano filoamericani-proisraele, e terzomondisti da Guerra fredda antisraeliani e intanto attentati e incitamento diventavano micidiali insieme all’azione delle organizzazioni antisemite di sinistra e di destra, fasciste e islamiste.
Dopo la guerra mondiale, per un certo periodo, nessuno ha nemmeno sospettato che l’antisemitismo potesse di nuovo mostrare il suo ghigno assassino e tanto meno che diventasse epidemico. Poi la faccenda è diventata urgente, fino all’Ihra. Oggi tutte le indagini ci dicono che tutte le forme di antisemitismo – quello classico, che immagina gli ebrei come parassiti e sfruttatori; quello religioso, che ne fa gli assassini di Gesù; quello politico che li vede come ignobili capitalisti e all’opposto come eversivi proletari; e soprattutto quello più comune oggi che indica il sionismo come teoria che non ha diritto di esistere e che si caratterizzerebbe per crudeltà, colonialismo, razzismo – tutte queste tendenze sono di nuovo fra noi, dai suprematisti bianchi a Black lives matter. Da Hamas ai neonazisti tedeschi. Dagli assassini di Halimi a quelli dei bambini nelle scuole di Tolosa.
La sinistra e la destra che hanno trovato contro gli ebrei terreno comune odiano il progresso, l’ordine, la cultura, il loro Paese, le minoranze. Hanno le loro radici nella cultura ellenistica, nel cristianesimo e nell’islam, fino alla soluzione finale nazista, che affonda in pseudo scienze biologiche e razziali. Secondo me, volendo trovare un punto in comune attraverso i millenni, esso è l’ostilità contro una religione (o, per i laici, una tradizione nazionale) che unisce un popolo, un caso unico al mondo di popolo e cultura, legato nelle sue mille varietà a un concetto etico astratto, a comandamenti soggetti a discussione continua (la Torah e poi il Talmud) eppure definitivi. Un misterioso puzzle che si compone solo nel cuore ebraico, anche nel più semplice.
La guerra delle definizioni aggredisce l’intuizione sacrosanta dell’Ihra quando dice, oltre a indicare come antisemitismo «una certa percezione che si può esprimere in odio contro gli ebrei» che «le manifestazioni possono prendere come obiettivo lo Stato d’Israele inteso come collettività ebraica»; naturalmente lo Stato Ebraico si può criticare quanto si vuole, purché tuttavia, secondo l’Ihra, non se ne disegni un’immagine morale che criminalizza il popolo ebraico e che quindi ne delegittima l’esistenza anche nazionale. E non si pretendano comportamenti diversi da quelli richiesti a altri Paesi.
Dopo la Guerra dei Sei Giorni, l’uso di stereotipi anticoloniali, anticapitalisti, antimperialisti, antiamericani, ha nutrito una visione totalmente falsata di Israele. In definitiva l’Ihra dice semplicemente di non mentire per negare a Israele il diritto all’esistenza.
Israele è uguale agli altri, quindi ha il diritto di difendersi dal lancio di missili di Hamas, o di cercare di fermare il terrorismo. Se non lo si ammette, questo è antisemitismo. Se alla Turchia o alla Cina o al Marocco non vengono applicate continue sanzioni e critiche politiche per controversie territoriali, farlo invece sui «territori» con scadenza martellante, è segno di antisemitismo.
L’Ihra, firmata subito da 36 Stati e poi adottata da una quantità di istituzioni compresa l’Onu, è stata una grande svolta: quando si grida nelle piazze «From the river to the sea Palestine will be free», non si stanno chiedendo «due Stati per due popoli», ma si aggredisce l’esistenza Israele. Inquisirne maniacalmente i comportamenti con commissioni internazionali create solo a questo scopo, è antisemitismo. E sempre gli incaricati di scandagliare i comportamenti di Israele nei Territori sono personaggi che hanno già dimostrato la loro pesante antipatia per Israele, come Navi Pillay e come l’attuale special rapporteur Francesca Albanese che sostiene che Israele può essere accusata di genocidio. Dal 2015 secondo Un watch, Israele è stata condannata 112 volte dall’Human Rights Council, l’Iran 5, il Nord Corea 6, la Russia 12. È forse logico che Israele sia molto più messa all’indice dell’Iran, della Cina e quant’altri violatori seriali dei diritti umani? Che le università consentano continue sessioni, mostre, manifestazioni sul suo supporto apartheid di cui mai non si sentì frottola maggiore? È libertà di opinione questa? O forse un modo per auspicare che come lo stato di apartheid per eccellenza, il Sud Africa, anche Israele scompaia dalla mappa?
Le Nazioni unite, il 20 e il 21 di giugno avrebbero dovuto tenere una riunione con i leader ebrei a Cordova per disegnare piani contro l’emergenza. Ma il draft per la discussione è stato così contestato che Miguel Moratinos ha annunciato: «Dopo attente considerazioni e per garantire che il piano d’azione sia inclusivo (magico aggettivo!, ndr), preferisco l’allungamento dei tempi di lavoro… nell’estate del 2023». Cos’è accaduto? Che, come le 60 pagine di «Piano d’azione» presentate appassionatamente dall’amministrazione Biden tre settimane fa, l’Ihra è ormai mescolata a due definizioni antagoniste, la «Nexus Definition» sviluppata dalla University of California Knight Program in Media and Religion e la «Jerusalem Declaration», ambedue firmate da centinaia di intellettuali di sinistra. Biden ha rilasciato la sua lodevole «strategia nazionale» all’inizio del mese, ha ribadito che l’Ihra è un testo fondamentale, ma che ci si baserà anche sulla prima e la seconda nuova definizione. Di fatto cercano ambedue di tagliare le gambe all’Ihra demolendone l’influenza primaria. La «Nexus» dichiara che «come regola generale, la critica del sionismo e di Israele, l’opposizione alle politiche d’Israele, le azioni politiche non violente dirette allo Stato di Israele e alle sue politiche non devono essere dichiarate antisemite». In base a questo, chiunque può marciare o parlare nelle università sostenendo che i terroristi sono martiri combattenti per la libertà, che i movimenti di boicottaggio economico, culturale, civile e scientifico sono legali. Chi insegna, recita, fa ricerca… Chi ha a che fare con la West bank può essere espulso, messo all’indice. «Nexus» si spinge anche più lontano sostenendo che di per sé il rifiuto del sionismo non è antisemitismo, come se esso non fosse il rifiuto della necessaria autodeterminazione nazionale degli ebrei, indigeni del Medio oriente, che oggi hanno il loro Stato, e quindi non corrispondesse a una delegittimazione. Ma quello che è peggio, «Nexus» stabilisce come assolutamente innocente il criterio del doppio standard affermando che «un focus sproporzionato su Israele o trattare Israele diversamente dagli altri Paesi non può essere considerato antisemita perché ci possono essere ragioni legittime di un’attenzione eccessiva». E così ritenere illegittimo il sionismo e quindi Israele, e ritenerlo responsabile di atti per cui gli altri non lo sono, è diventato, accanto all’Ihra, un criterio di lotta contro l’antisemitismo. Un disastro per la logica e per la storia del genere umano che non vuole riconoscere il peggiore e il più antico dei suoi odii. Non è una novità, ma peccato dopo l’Ihra! E poiché gli ebrei sono il canarino nella miniera, come lo sono stati al tempo della Seconda guerra mondiale, sarà opportuno scegliere una parte in questa battaglia e combatterla insieme all’Ihra.
(questo articolo, già pubblicato da Il Giornale, è ripreso con il consenso dell’autrice)
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