L’inflazione nell’area dell’euro è troppo elevata e rimarrà prevedibilmente tale per troppo tempo. Sta però cambiando la natura della sfida che pone.
Il tasso di inflazione sta diminuendo con l’attenuarsi degli shock che l’avevano inizialmente sospinto al rialzo e con la progressiva trasmissione dei nostri interventi di politica monetaria all’economia. Tuttavia, gli effetti di tali shock si stanno ancora esplicando, rendendo il calo dell’inflazione più lento e il processo inflazionistico più persistente.
Tale persistenza è riconducile alla propagazione dell’inflazione nell’economia in più fasi, poiché diversi operatori economici tentano di trasmettersi i costi a vicenda. Sebbene le proiezioni degli esperti della BCE l’avessero previsto già da diverso tempo, abbiamo rivisto la nostra valutazione sulla base dei nuovi dati.
I responsabili della politica monetaria devono affrontare con decisione questa dinamica per evitare che si inneschi una spirale autoalimentata sospinta da aspettative di disancoraggio dell’inflazione.
L’interrogativo fondamentale che si pone oggi è dunque: come possiamo spezzare questa persistenza?
Nel Consiglio direttivo della BCE abbiamo chiarito che saranno due gli elementi fondamentali del nostro orientamento di politica monetaria: dovremo portare i tassi su livelli “sufficientemente restrittivi” e mantenerli su tali livelli “finché necessario”.
Su entrambi gli elementi grava l’incertezza che circonda la persistenza dell’inflazione e l’intensità della trasmissione della politica monetaria all’inflazione.
Stabilire il giusto “livello” e la giusta “durata” sarà fondamentale per la nostra politica monetaria con l’avanzare di questo ciclo di inasprimento.
Nel mio intervento odierno esaminerò i motivi per cui il processo di inflazione è diventato più persistente e le relative implicazioni per il nostro orientamento di politica monetaria.
Non intendo segnalare alcuna decisione a venire, ma piuttosto inquadrare le questioni che la politica monetaria dovrà affrontare nel prossimo futuro.
Lo shock inflazionistico
Dalla fine della pandemia l’economia dell’area dell’euro ha dovuto affrontare una serie di shock inflazionistici concomitanti[1]. Dall’inizio del 2022 questi shock hanno innalzato il livello dei prezzi dell’11% e determinato un trasferimento di oltre 200 miliardi di euro al resto del mondo in modo analogo a una “tassa sulle ragioni di scambio”[2].
In tale contesto, la reazione naturale di qualsiasi operatore economico consiste nel tentare di trasferire gli incrementi dei prezzi ad altri operatori. Nell’area dell’euro possiamo individuare due fasi distinte di questo processo.
La prima è stata caratterizzata dalle imprese, che hanno reagito al forte aumento dei costi degli input difendendo i propri margini e trasmettendo i maggiori costi ai consumatori.
L’intensità di questa reazione è stata insolita. Durante i passati shock alle ragioni di scambio nell’area dell’euro le imprese avevano teso ad assorbire l’incremento dei costi nei margini di profitto, poiché a causa della minore crescita i consumatori erano meno propensi a tollerare i rincari[3]. Ma le condizioni straordinarie dello scorso anno hanno ribaltato questa regolarità.
L’entità della crescita dei costi degli input ha reso più difficile per i consumatori valutare se i rincari fossero stati causati da un incremento dei costi o dei profitti, alimentando una trasmissione ai prezzi più rapida e più marcata. Al tempo stesso, la domanda repressa liberata dalla riapertura delle attività, l’eccesso di risparmio, le politiche espansive e le restrizioni all’offerta a seguito delle strozzature hanno fornito alle imprese margini di manovra più ampi per mettere alla prova la domanda dei consumatori con prezzi più elevati.
Pertanto, i profitti per unità di prodotto hanno contribuito per circa due terzi all’inflazione interna[4] nel 2022, mentre nei vent’anni precedenti il loro contributo medio era stato di circa un terzo[5]. Di conseguenza, gli shock hanno alimentato l’inflazione molto più rapidamente e molto più intensamente che in passato.
Questa prima fase sta tuttavia cominciando a esaurirsi.
Soprattutto per effetto del calo delle quotazioni dell’energia, la dinamica sui dodici mesi dei prezzi alla produzione è già diminuita di 42 punti percentuali rispetto al suo picco nella scorsa estate. Nonostante il tempo impiegato per trasmettersi ai prezzi più in generale, tale andamento si riflette in parte in un calo generalizzato dell’inflazione complessiva e in una stabilizzazione di alcune misure dell’inflazione di fondo, in particolare quelle basate sull’esclusione di alcune componenti e quelle che colgono gli effetti persistenti dell’energia sui prezzi a livello dell’intera economia.
Parallelamente, l’elevata inflazione ha eroso la domanda interna, contrattasi del 2% negli ultimi due trimestri[6], e viene meno l’impulso ai consumi generato dall’eccesso di risparmio[7]. Emergono inoltre i primi effetti dell’inasprimento della nostra politica monetaria, soprattutto in settori quali il manifatturiero e le costruzioni, più sensibili alle variazioni dei tassi di interesse.
A fronte di tale combinazione di calo dei costi degli input e diminuzione della domanda, abbiamo assistito nel primo trimestre di quest’anno alla marcata riduzione della crescita degli utili unitari nella gran parte dei settori.
Un processo inflazionistico più persistente
La seconda fase del processo inflazionistico sta però iniziando ora ad acquisire vigore.
I lavoratori sono stati finora penalizzati dallo shock inflazionistico, che ha determinato l’ampia riduzione dei salari reali, innescando un sostenuto processo di recupero delle retribuzioni alimentato dal tentativo di compensare le perdite subite. Ciò sta sospingendo al rialzo altre misure dell’inflazione di fondo che colgono maggiormente le pressioni interne sui prezzi, in particolare le misure dell’inflazione sensibile ai salari e dell’inflazione interna.
E visto il carattere pluriennale e inerziale della contrattazione salariale in molti paesi europei, tale processo si esplicherà naturalmente lungo diversi anni. Secondo le nostre ultime proiezioni, i salari dovrebbero aumentare di un ulteriore 14% da qui alla fine del 2025 e tornare pienamente in termini reali al livello pre-pandemico.
Nonostante tale recupero delle retribuzioni sia già da tempo considerato nelle nostre prospettive di inflazione, l’effetto dell’aumento dei salari sull’inflazione è recentemente stato amplificato dalla minore crescita della produttività rispetto alle proiezioni precedenti, determinando un incremento del costo del lavoro per unità di prodotto. Oltre che per i passati aumenti inattesi, è principalmente per questo motivo che recentemente abbiamo rivisto al rialzo le proiezioni per l’inflazione di fondo, sebbene le nostre aspettative relative ai salari siano rimaste sostanzialmente invariate.
Due caratteristiche dell’attuale ciclo economico contribuiscono a tale dinamica, ed entrambe potrebbero anche persistere.
La prima è la tenuta dell’occupazione rispetto alla crescita del PIL.
In genere, ci saremmo aspettati che il rallentamento dell’espansione economica nel corso dell’ultimo anno frenasse in certa misura la crescita dell’occupazione. Tuttavia, in particolare negli ultimi tre trimestri, il mercato del lavoro ha registrato risultati migliori di quanto suggerirebbe una regolarità basata sulla legge di Okun.
Tale scollamento è in parte riconducibile a un maggiore ricorso a strategie di mantenimento di manodopera inutilizzata (labour hoarding) da parte delle imprese in un contesto di carenza di forze di lavoro, come si evince dall’attuale divario tra il totale e la media delle ore lavorate[8]. Ciò si ripercuote sulla crescita della produttività e, con l’ulteriore lieve calo della disoccupazione atteso nell’orizzonte di previsione, l’incentivo a trattenere l’occupazione in eccesso potrebbe non esaurirsi in tempi brevi per le imprese.
La seconda caratteristica che contribuisce a un indebolimento della produttività aggregata è la composizione dell’aumento dell’occupazione, che si concentra in settori con una crescita della produttività strutturalmente bassa.
Dall’inizio della pandemia l’occupazione è cresciuta principalmente nel comparto delle costruzioni e nel settore pubblico, che hanno entrambi registrato un calo della produttività, e nei servizi, per i quali si è osservata soltanto una crescita esigua della produttività. Tali andamenti potrebbero persistere in alcuni di questi settori anche nei prossimi anni, data la relativa debolezza nel comparto manifatturiero e lo spostamento dell’occupazione verso i servizi nel lungo termine.
Tutto ciò significa che si prospettano diversi anni in cui i salari nominali continueranno ad aumentare, sulla scorta di pressioni derivanti dal costo del lavoro per unità di prodotto acuite da una crescita modesta della produttività. In questo contesto, la politica monetaria deve conseguire due obiettivi fondamentali.
In primo luogo, dobbiamo assicurare che le aspettative di inflazione restino ancorate mentre procede il processo di recupero delle retribuzioni. Sebbene attualmente non si osservi una spirale salari-prezzi né un disancoraggio delle aspettative, più a lungo l’inflazione resterà al di sopra dell’obiettivo, maggiori diverranno tali rischi. Questo significa che dobbiamo ricondurre tempestivamente l’inflazione al nostro obiettivo di medio termine del 2%.
In secondo luogo, affinché ciò avvenga, dobbiamo assicurare che le imprese assorbano l’incremento dei costi del lavoro nei margini di profitto. Se la politica monetaria sarà sufficientemente restrittiva, l’economia potrà conseguire una disinflazione complessiva mentre i salari reali recupereranno in parte le perdite subite. Ciò dipenderà tuttavia dall’effetto frenante sulla domanda esercitato per qualche tempo dalla politica monetaria, per scongiurare le recenti pratiche di fissazione dei prezzi sinora adottate dalle imprese.
L’analisi di sensibilità condotta dagli esperti della BCE pone in risalto i rischi che dovremmo affrontare se le imprese cercassero invece di difendere i propri margini. Se, ad esempio, le imprese dovessero recuperare il 25% del margine di profitto che perderebbero in base alle nostre proiezioni, nel 2025 l’inflazione sarebbe notevolmente più elevata rispetto allo scenario di base, ossia quasi al 3%.
Di conseguenza, dinanzi a un processo inflazionistico più persistente occorre una politica monetaria più persistente, che non produca soltanto un inasprimento adeguato nel presente, ma mantenga anche condizioni restrittive finché non potremo avere la certezza che questa seconda fase del processo inflazionistico sia stata superata con successo.
L’intonazione della politica monetaria
Cosa comporta in concreto per la nostra politica monetaria?
L’impatto complessivo degli incrementi dei tassi decisi a partire dallo scorso luglio, pari a 400 punti base, non si è ancora esplicato appieno. Ma il nostro lavoro non è ancora finito. Escludendo un mutamento sostanziale delle prospettive di inflazione, continueremo a innalzare i tassi a luglio.
Procedendo in territorio restrittivo, dovremo prestare particolare attenzione a due dimensioni della nostra politica monetaria: in primo luogo, gli interventi sul “livello” dei tassi e, in secondo luogo, la comunicazione delle decisioni future e le relative ripercussioni sulla “durata” attesa del periodo di mantenimento di tale livello raggiunto.
Il Consiglio direttivo ha fornito indicazioni riguardo a entrambe le dimensioni, dichiarando esplicitamente che “le decisioni future assicureranno che i tassi di interesse di riferimento della BCE siano fissati a livelli sufficientemente restrittivi da conseguire un ritorno tempestivo dell’inflazione all’obiettivo del 2% nel medio termine e siano mantenuti su tali livelli finché necessario”.
Due fonti di incertezza incidono sul “livello” e sulla “durata” auspicabili della nostra politica dei tassi di interesse.
In primo luogo, poiché la persistenza dell’inflazione è circondata da incertezza, il livello massimo dei tassi sarà determinato in base alle circostanze contingenti. Dipenderà da come evolveranno nel tempo l’economia e le varie forze che ho descritto. E dovrà essere sottoposto a riesame costante.
In tali condizioni, è improbabile che nel prossimo futuro la banca centrale sia in grado di dichiarare con assoluta certezza che il livello massimo dei tassi sia stato raggiunto. Le decisioni della nostra politica monetaria devono essere infatti definite di volta in volta a ogni riunione e continuare a essere guidate dai dati.
In secondo luogo, l’intensità della trasmissione della politica monetaria è circondata da incertezza.
L’intensità di trasmissione pone in collegamento le decisioni correnti e le aspettative riguardo alla politica monetaria futura, influendo pertanto sull’orientamento della politica monetaria stessa. L’effettiva intensità di trasmissione che si osserverà nella pratica determinerà l’effetto di un dato innalzamento dei tassi sull’inflazione, che si rifletterà nella traiettoria attesa della politica monetaria.
L’incertezza riguardo alla trasmissione deriva dal fatto che l’area dell’euro non vive una fase sostenuta di aumento dei tassi dalla metà degli anni 2000 e non ha mai assistito a rialzi così rapidi. Per questo ci si interroga sul ritmo e sull’intensità della trasmissione della politica monetaria alle imprese e alle famiglie, rispettivamente mediante la spesa sensibile agli interessi e il pagamento dei mutui ipotecari.
Riguardo alle imprese, l’analisi della BCE rileva che gli shock di politica monetaria tendono a trasmettersi più rapidamente e più fortemente al settore manifatturiero, vista la maggiore sensibilità del comparto ai tassi di interesse, mentre l’impatto sui servizi è più contenuto e ritardato.
Oggi la questione fondamentale è se il settore dei servizi finirà per “cedere” a tale impatto, mostrando un andamento già osservato nei cicli precedenti, o se rimarrà immune agli effetti dell’inasprimento delle politiche più a lungo che in passato in virtù del vigore della domanda e dell’occupazione che lo contraddistingue[9].
Per quanto riguarda le famiglie, le evidenze emerse indicano che la trasmissione delle modifiche di politica monetaria agli oneri per interessi richiederà tempi più lunghi nell’attuale ciclo di inasprimento, poiché la quota di famiglie con mutui a tasso fisso è più alta rispetto a quella registrata a metà degli anni 2000.
Al tempo stesso, una volta ridefiniti i prezzi dei mutui, l’effetto restrittivo potrebbe essere maggiore: i valori del rapporto tra indebitamento lordo e reddito, da cui si evince la capacità di servizio del debito, sono più elevati rispetto ai precedenti cicli di inasprimento monetario, mentre è aumentata la quota di proprietari di abitazioni titolari di un mutuo[10].
Entrambe le fonti di incertezza verranno meno soltanto nel tempo. Per questo abbiamo stabilito che le nostre decisioni future di politica monetaria dipenderanno in primo luogo dalle prospettive di inflazione, in secondo luogo dalla dinamica dell’inflazione di fondo e in terzo luogo dall’intensità della trasmissione della politica monetaria.
Ma per garantire che l’incertezza non interferisca con l’intonazione di politica monetaria auspicabile, in termini sia di “livello” sia di “durata”, due punti appaiono chiari.
Primo, dobbiamo portare i tassi di riferimento in territorio “sufficientemente restrittivo” per consolidare l’inasprimento della nostra politica.
Secondo, dobbiamo comunicare chiaramente che rimarremo “su tali livelli finché necessario”. In tal modo si garantirà che il ciclo di inasprimento non inneschi aspettative di un’inversione di direzione troppo repentina e si consentirà il pieno concretizzarsi degli effetti dei nostri precedenti interventi monetari.
Dobbiamo di pari passo valutare attentamente l’intensità della trasmissione della politica monetaria al fine di evitare errori nella calibrazione della nostra politica nell’una o nell’altra direzione.
Conclusioni
Attualmente la politica monetaria ha un’unica priorità: ricondurre tempestivamente l’inflazione al nostro obiettivo del 2% nel medio termine.
E siamo impegnati a conseguire tale obiettivo qualunque cosa accada.
Come ha scritto Helen Keller: “I nostri peggiori nemici non sono le circostanze belligeranti, ma gli animi titubanti”[11].
Abbiamo compiuto progressi significativi. Ma dinanzi alla persistenza del processo inflazionistico non possiamo abbassare la guardia e non possiamo ancora dichiarare vittoria.
- Per maggiori dettagli su questi shock, cfr. Lagarde, C. (2022), “La politica monetaria in un contesto di inflazione elevata: impegno e chiarezza”, conferenza organizzata dalla Eesti Pank e dedicata al Professor Ragnar Nurkse, Tallinn, 4 novembre.
- Complessivamente, dal secondo trimestre del 2022 fino agli ultimi dati disponibili (primo trimestre del 2023), l’area dell’euro ha trasferito 213 miliardi di euro al resto del mondo a causa del deterioramento delle ragioni di scambio, pari all’1,6% del PIL dell’area dell’euro.
- Cfr. Arce, O., Hahn, E. e Koester, G. (2023), “How tit-for-tat inflation can make everyone poorer”, Blog della BCE, 30 marzo 2023.
- Rappresentati dal deflatore del PIL.
- Arce, O., Hahn, E. e Koester, G. (2023) op. cit.
- L’ultimo trimestre del 2022 e il primo trimestre del 2023.
- Battistini, N., Di Nino, V. e Gareis, J. (2023), “The consumption impulse from pandemic savings ‒ does the composition matter?”, Bollettino economico, BCE, di prossima pubblicazione.
- Cfr. Arce, O., Consolo, A., Dias da Silva, A. e Mohr, M. (2023), “More jobs but less working hours”, Blog della BCE, 7 giugno.
- Seppur in leggera riduzione a giugno, rimane ampio il divario tra l’indice dei responsabili degli acquisti (PMI) relativo ai servizi e quello relativo al prodotto del settore manifatturiero.
- Si rileva tuttavia eterogeneità tra i paesi dell’area dell’euro, in alcuni dei quali la quota di proprietari di abitazioni che ancora pagano un mutuo ipotecario ha segnato una diminuzione.
- Keller, H. (1903), “My Future As I See It”, The Ladies’ Home Journal, vol. XX, n. 12, Philadelphia, pag.11.
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