La governance del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è stato uno dei temi discussi in un importante Convegno promosso dalla Corte dei conti e dall’Università Cattolica di Milano. La recente legge per l’attuazione del PNRR integra un modello di gestione che dovrebbe andare anche oltre il 2026, superando l’antico difetto italiano nelle capacità di spesa e nel conseguimento di obiettivi di pubblico interesse. A questo scopo, l’esperienza storica può servire a comprendere la portata dei problemi e indicare strade per la loro soluzione. In altre epoche, di fronte a gravi crisi e divari, le modalità di intervento pubblico furono ancorate a strategie di fondo. Il New Deal negli Stati Uniti, con la formazione della Tennessee Valley Authority, e l’intervento straordinario in Italia, con la nascita della Cassa per il Mezzogiorno, si legavano a un’idea, sorta ai due lati dell’oceano e condivisa da Nitti e Beneduce come da Roosevelt, secondo la quale lo Stato si sarebbe dovuto vestire dei panni dell’impresa privata. In questo modo, alla forza del potere pubblico si sarebbe affiancata l’efficienza aziendale. La Cassa basò il suo successo, nel primo ventennio di attività, sulla natura di ente pubblico dotato di un ordinamento speciale, ovvero di tecnostruttura in grado di attuare gli indirizzi del Governo con una conduzione agile e per obiettivi, performance-based. La degenerazione di questa impostazione si verificò con il passaggio all’impiego della spesa pubblica in chiave politico-assistenziale, aprendo le porte alle scelte localistiche e alla dispersione delle risorse in mille rivoli. In un contesto storico e competitivo del tutto diverso, nel pieno di un’età di transizione costellata da una sequenza di crisi, non è pensabile replicare quella struttura, ma si possono cogliere principi essenziali e spingere l’economia come settant’anni fa. La legge approvata il 21 aprile presenta aspetti che vanno nella direzione di un coordinamento dei programmi in corso e di un sistema di gestione unitaria: l’unificazione delle competenze ai fini di un’omogeneità di intervento, attraverso la costituzione della Struttura di missione PNRR; l’allargamento della cabina di regia all’interlocuzione, si spera fattiva, con il partenariato economico-sociale e le Regioni; le ulteriori semplificazioni orizzontali e verticali introdotte per imprimere un’accelerazione al Piano; l’esercizio più rapido e concludente dei poteri sostitutivi. Tuttavia, basta focalizzare l’attenzione su alcuni punti per individuare le criticità attuali. 118 su 527 misure del PNRR presentano fino a 4 elementi di debolezza, facendo emergere serie difficoltà nella capacità amministrativa dei soggetti attuatori. A tutto il 2022, poi, è stata sostenuta una spesa di 24,5 miliardi, pari a circa il 13% dei finanziamenti del dispositivo di ripresa e resilienza. Le infrastrutture prioritarie, secondo Servizio Studi della Camera, Anac e Cresme, hanno subìto un incremento dei costi di oltre il 26% e il 58% dei relativi interventi è ancora in fase di progettazione. Inoltre, dei 197.000 progetti registrati su ReGiS, la piattaforma per il monitoraggio e la rendicontazione, solo 85.000 sono stati validati finora. La dispersione delle attività è chiara: secondo la relazione semestrale del Ministro, l’87% del totale dei progetti è inferiore o uguale a 1 milione; mentre, per Carlo Altomonte e Andrea Montanino, gli interventi di minori dimensioni valgono tra 2 e 5 miliardi di euro nel complesso e sono numerosissimi (76.000 appalti sono di valore inferiore a 70.000 euro). Vi sono diversi nodi da sciogliere per perfezionare il funzionamento di un modello di gestione aggiornato, mentre si affretta la “messa a terra” degli investimenti. Le Strutture di missione dei Ministeri vanno messe in sintonia con quella centrale, onde evitare disarticolazioni e rallentamenti, così come andrebbe risolta la duplicità di riferimenti dell’Ispettorato generale per il PNRR, che risponde al Ministro dell’Economia e delle Finanze per la rendicontazione – si badi bene, degli obiettivi quantitativi e non solamente della spesa – e alla Presidenza del Consiglio per i dati sull’attuazione di ciascun progetto e la rilevazione delle criticità. Al tempo stesso, va rafforzato il rapporto tra organismi nazionali e territori, anche nell’operatività quotidiana: i Patti per lo sviluppo rappresentano un utile esempio di come si possa tenere insieme l’iniziativa centrale (top down) con quella dal basso (bottom up). Inoltre, l’azione di coordinamento può essere consolidata mediante il ricorso a strutture esistenti (Dipartimento per le Politiche di Coesione, Invitalia, Cassa Depositi e Prestiti e altri enti che si occupano di investimenti) in sinergia tra loro. Il rapporto pubblico-privato può dare impulso al Piano, puntando non solo sulle grandi aziende partecipate, ma anche su incentivi a imprese private e PMI, estendendo l’esperienza fortunata del credito d’imposta per gli investimenti e dei contratti/accordi di sviluppo. Così, si otterrebbe un effetto moltiplicatore decisivo per fronteggiare il debito pubblico. Infine, un migliore sistema dei controlli è il terreno concreto per far prevalere la collaborazione tra istituzioni e la diffusione di una cultura dei risultati. La rimodulazione del PNRR va portata avanti rapidamente, oltre che in stretta connessione con la Commissione Europea, in uno spirito di ascolto e partecipazione delle diverse organizzazioni economiche, sociali e territoriali del Paese. Da questo scenario emerge sempre più la centralità dell’Europa per lo sviluppo dell’Italia. Si tratta di un’occasione irripetibile: il nostro destino dipende da come sapremo interpretarla e da noi dipende in gran parte il successo del Next Generation EU, di questa stagione volta alla piena ripresa e alla crescita economica di questa parte del mondo.
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