Nel lontano 2001, con le modifiche al Titolo V della Costituzione introdotte dall’allora Governo Amato, si era aperta per le Regioni la possibilità di attivare “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” riguardanti 24 materie riconosciute di potestà legislativa concorrente con lo Stato, tra cui la tutela della salute. Da allora due sono stati gli snodi in cui si è cercato di dare seguito e realizzazione al regionalismo differenziato: il primo nel 2017, quando tre regioni avviarono un negoziato con il Governo Gentiloni per il riconoscimento dell’autonomia differenziata e il secondo nel 2023, con la presentazione del DDL Autonomia da parte di Roberto Calderoli, l’attuale Ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie. Ripercorriamo sinteticamente le tappe di queste due fasi per passare poi a discutere delle possibili implicazioni del DDL Calderoli in ambito sanitario.
Nell’ottobre 2017, prima l’Emilia-Romagna – con l’approvazione di una risoluzione dell’Assemblea regionale per l’avvio del procedimento – e dopo Lombardia e Veneto (in seguito a referendum consultivi sull’attribuzione di forme ulteriori e condizioni particolari di autonomia) aprirono un negoziato con il Governo per il riconoscimento dell’autonomia differenziata. Negoziato che portò le regioni a sottoscrivere tre diversi accordi preliminari con il Governo Gentiloni, indicando come materie di interesse prioritario la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, l’istruzione, la tutela del lavoro, i rapporti internazionali e con l’Unione Europea e, appunto, la tutela della salute (riservandosi la possibilità di estendere successivamente il negoziato ad altre materie).
Nel febbraio 2019 le tre Regioni firmatarie richiesero al Governo Conte I un ampliamento del novero di materie su cui attivare specifiche intese mentre altre Regioni (Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria, Marche) formalizzarono la richiesta di avvio di negoziati portando – il mese successivo – la Commissione parlamentare per le questioni regionali ad avviare un’indagine conoscitiva. La Commissione proseguirà nei suoi lavori e nelle audizioni fino a luglio 2022 quando approverà un documento definitivo sul processo di attuazione del “regionalismo differenziato”.
Lo scoppio della pandemia, all’inizio del 2020, raffredda tuttavia il dibattito che riprenderà di fatto solo dopo le elezioni politiche del 2023. Il programma della coalizione di centro-destra, vincitrice delle elezioni, prevedeva infatti di “attuare il percorso già avviato per il riconoscimento delle Autonomie ai sensi dell’art. 116, comma 3 della Costituzione, garantendo tutti i meccanismi di perequazione previsti dall’art. 119 della Costituzione”, oltre che la “Piena attuazione della legge sul federalismo fiscale […]”.
E così, a poche settimane dall’insediamento del Governo Meloni, il 17 novembre 2022, il Ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie presenta alle Regioni una bozza di DDL dal titolo: “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”, trasmesso poi – entro la fine dell’anno – alla Presidenza del Consiglio come Disegno di Legge sull’autonomia. Bozza che ottiene il “via libera” da parte della Conferenza Stato-Regioni, con gli unici voti contrari di Toscana, Emilia-Romagna, Puglia e Campania, e viene approvata dal Consiglio dei Ministri il 2 febbraio 2023.
In sintesi il DDL prevede che l’attribuzione di nuove funzioni legislative e amministrative in forma differenziata debba essere subordinato alla determinazione dei “livelli essenziali delle prestazioni” (LEP) concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e definisce la procedura per l’attribuzione delle ulteriori “forme e condizioni particolari di autonomia”.
Trattandosi di un percorso decennale di confronto e discussione, il tema della autonomia differenziata, soprattutto in ambito sanitario, è stato affrontato in modo attento e critico sia dal punto di vista giuridico che da quello economico. In questo articolo quindi, ripartendo dalle considerazioni espresse dalla Fondazione Gimbe, proviamo a indicare due ulteriori elementi di riflessione che a nostro parere devono essere presi in esame per valutare la bontà del documento presentato dal Ministro Calderoli.
Il Report elaborato dalla Fondazione Gimbe (Il regionalismo differenziato in sanità, Report Osservatorio Gimbe, 1/2023) solleva una forte critica a partire dall’analisi di due aspetti: i risultati ottenuti dalle Regioni a partire dalla Griglia LEA e i dati disponibili rispetto alla mobilità sanitaria. La disamina di queste dimensioni certifica la presenza di profonde – e crescenti – disparità tra regioni, tanto da mettere in discussione i principi fondanti del Servizio Sanitario Nazionale (SSN). In questo contesto, quindi, prima di discutere di qualsiasi forma di autonomia differenziata, Gimbe suggerisce di rimuovere anzitutto i gap strutturali che condizionano la fruizione del diritto alla salute. Accanto a ciò, alcune richieste sulla gestione del personale e la contrattazione integrativa, come quelle espresse dalla Regione Veneto, potrebbero finire per innescare la concorrenza tra i Servizi Sanitari Regionali (SSR), aumentando così le differenze tra territori.
Se le riflessioni della Fondazione Gimbe sul rischio di crescenti disuguaglianze sono certamente condivisibili, il nostro contributo vuole attirare l’attenzione su alcuni aspetti più controversi, sia di carattere tecnico che politico-istituzionale.
Per quanto concerne gli aspetti tecnici, il richiamo alla Griglia LEA sottolinea la necessità di avviare una riflessione pubblica rispetto al ruolo e alla definizione di tali indicatori. Infatti, come osserva la stessa Fondazione all’interno di uno specifico Report (La mobilità sanitaria interregionale nel 2020, Report Osservatorio Gimbe, 2/2023), la selezione delle dimensioni da misurare è spesso rigida, talvolta definita in maniera poco chiara e con soglie di adempimento ritenute eccessivamente basse. Guardare quindi ai soli dati oggi disponibili è utile ma non sufficiente se vogliamo sviluppare una lettura profonda e accurata delle criticità dei SSR.
Il secondo punto ha invece una natura politico-istituzionale. Sebbene le performance di Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto siano nel complesso positive, riflettendo elementi virtuosi nei processi di governance che nel tempo si sono consolidati, la trasformazione innescata dal DM77 sui nuovi modelli e standard per lo sviluppo dell’assistenza territoriale rappresenterà una sfida anche per queste regioni. In questo senso, in un contesto radicalmente mutato – sia dal punto di vista organizzativo che epidemiologico -, ciò che ha funzionato in passato non è detto sia necessariamente un predittore adeguato per anticipare quello che accadrà in futuro.
Alla luce di tali considerazioni, forse conviene quindi aspettare il 2026 per capire come si posizioneranno i diversi SSR e, soprattutto, se i divari segnalati dalla Fondazione Gimbe si saranno accorciati o se, al contrario, gli investimenti del PNNR avranno ulteriormente allargato la forbice tra le Regioni.
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