La cosa brutta è che tutti gli addetti ai lavori sapevano che non saremmo stati capaci di spendere tanti miliardi aggiuntivi di investimenti in cinque anni. Il piano PNRR e il Piano complementare, 190 miliardi e 30 miliardi rispettivamente, ammontano a circa 220 miliardi e prevedono la conclusione dei lavori nel 2026. Il primo con vincoli strettissimi e il secondo con vincoli più leggeri ma, a parole, altrettanto tassativi.
Se consideriamo il periodo precedente la “nascita” del PNRR, l’Italia ha fatto investimenti dal 2016 al 2020 pari a circa 198 miliardi. Una media di appena 40 miliardi l’anno. E’ facile capire quale sarebbe stata, e quale tutt’ora è, la sfida di portare gli investimenti annuali a 84 miliardi l’anno. Una vera e propria “rivoluzione istituzionale, finanziaria e gestionale” del paese. Certo non tutti i fondi Pnrr e complementare sono stati destinati ad Investimenti. Ma il discorso cambia poco se invece di dover raggiungere 84 miliardi l’anno si sarebbe dovuto arrivare a 80 miliardi.
Le strade che purtroppo abbiamo seguito sono ambedue difensive. La prima è quella, non nuova per l’Italia, di “far finta” di fare investimenti aggiuntivi e invece di rendicontare investimenti già previsti dal sistema. Questa cosa piace molto ai governanti italiani perché produce, di fatto, un tesoretto utile ad aumentare surrettiziamente la spesa corrente. Ed ecco le spese per “bonus” edilizi elargiti a piene mani. Che sono spese in conto capitale ma che vengono gestite come trasferimenti di spesa corrente. Un vero e proprio spostamento di denaro fra i cittadini pagatori di tasse e i cittadini a cui è riuscito pagare i lavori di casa propria con risorse pubbliche. Sarebbe interessante capire che rapporto c’è fra i due gruppi e quanti dei primi si trovano nel gruppo dei secondi.
La seconda è quella di “fare ammunina”. Cioè si infarcisce il PNRR di obiettivi “formali” (milestones, target, sotto obiettivi, cronoprogrammi etc), si comincia a raggiungerne una certa quantità in tal modo nascondendo la cruda verità che il Piano, quello vero fatto di progetti esecutivi e cantieri, è di fatto fermo. Con il retropensiero di arrivare ad un certo punto e chiedere alla UE, solita riconosciuta matrigna, di allungare i tempi di esecuzione delle opere lasciando così la possibilità di adattare la “ferrea programmazione” dei burocrati europei alla “creatività irresponsabile” del “bel paese”.
Tutto previsto. Tutto prevedibile. Il fatto è che l’Italia è impossibilitata, per il tipo di governance a più livelli, dove l’unica cosa che non si diffonde è il “livello di responsabilità”, e per la presenza di un “centro debole e altrettanto irresponsabile” rispetto ai livelli decentrati, a gestire programmi complessi con dotazione di risorse rilevanti per la spesa in investimenti. Siamo ottimi spenditori di “risorse correnti” o simil correnti, come lo sono i Bonus per investimenti privati. Quelle che più pesano sul Bilancio Pubblico e che distorcono il rapporto corretto fra spese di una generazione e quelle successive. Ma siamo pessimi spenditori laddove dal “bonus” dobbiamo passare alla complessa gestione di un investimento in tutta la filiera necessaria (programmazione, monitoraggio, progettazione, esecuzione, collaudo e rendicontazione).
E allora il PNRR doveva essere trattato come un Piano “straordinario” ma non a parole ma nei fatti. Tutti si sono cimentati nella narrazione del Pnrr che era fatto di spese ma anche di Riforme. Ma quale è stata la riforma nella Governance del Piano? Tutta una serie di sigle, di consulenti, di comitati interministeriali, di decreti semplificazione che non hanno di fatto cambiato la natura della Governance reale. Lasciando intatti quei sistemi e sottosistemi che generano da anni, e senza soluzione di continuità rispetto alle mille operazioni di semplificazione, ritardi, incurie e blocchi nelle opere utili al paese.
La Riforma della Governance richiedeva, e richiede ancora oggi, quattro punti fermi. Il primo è la individuazione di un “centro forte” capace di gestire la “filiera della programmazione dei lavori pubblici”. Quali che siano questi lavori. La creazione di un Ministero dei lavori pubblici? E perché no? Cinque anni fa avevo proposto che il Ministero delle infrastrutture realizzasse nel paese, in un rapporto collaborativo con le Regioni e con i Comuni, una sorta di “Agenzia del Territorio”, ad esclusivo contenuto tecnico e che integrasse tutti i soggetti legati agli interventi sul territorio (Provveditorati, Geni civili, Agenzie tecniche e altri soggetti decentrati) a sostegno degli interventi di investimento delle Istituzioni pubbliche. Dal controllo dei progetti, alle gare alle fasi di cantiere e ai collaudi). Potrebbe essere un progetto da riprendere e approfondire.
Il secondo punto fermo è la individuazione di una “centro territoriale forte”. La sperimentazione, avviata nell’area del dissesto idrogeologico, della individuazione del Presidente di Regione anche come Commissario statale per la realizzazione delle opere potrebbe essere un modello da affinare, rafforzare e allargare a tutti i settori dell’intervento pubblico.
Il terzo punto fermo è la qualificazione della fase della progettazione che è “centrale” per la realizzazione di opere in tempi, modalità e livelli di qualità adeguati. Qui siamo passati dal “ruolo centrale” dei tecnici delle pubbliche amministrazioni , peraltro pagati con incentivi extrastipendio, ad una “centralità del mercato” con i tecnici della pubblica amministrazione in una posizione di mero controllo burocratico. Su questo punto occorre una vera riforma pensata e studiata. Che dia un “giusto ruolo” ai tecnici della PA, magari meglio se raggruppati in “team più ampi” del singolo ufficio comunale, e un “giusto ruolo” ai tecnici del Mercato. Favorendo l’interazione fra i due momenti e non la competizione “a chi conta di più”.
Il quarto punto è la riorganizzazione delle fasi di gara, controllo dei cantieri e dei collaudi. Anche qui il ruolo dei tecnici della Pa è essenziale. Ma occorre eliminare una volta per tutte la frammentazione dei livelli territoriali a vantaggio di “team qualificati” in grado di gestire opere complesse e di livello e di favorire la correttezza, tecnica e amministrativa, e la tempestività delle operazioni.
Insomma per passare da 40 a 80 miliardi all’anno di opere ci sarebbe stato bisogno di un “salto di scala” della “macchina” sia pubblica che privata. Per portare avanti i cantieri ci vogliono imprese, tecnici, lavoratori e macchine. E non sempre questo si riscontra in Italia. Ed è più difficile farlo se l’aspettativa è quella di un “balzo di investimenti” per cinque anni con poi un “atterraggio su livelli consueti” negli anni successivi. Anche questo è un punto rilevante: dopo il Pnrr l’italia deve assicurare, in primo luogo a sé stessa, che il livello degli investimenti starà almeno su livelli di 60 miliardi per un po’ di anni. Il minimo sindacale per un paese in crisi di infrastrutturazione.
Ed ora? Di fronte ad una riforma avviata “a pezzi”, senza un disegno organico, l’unica arma che rimane è quella del Commissariamento del Pnrr. Non sarà taumaturgico ma, laddove fosse un vero Commissario con poteri straordinari, potrebbe superare alcuni ostacoli che sono insormontabili nella gestione ordinaria. Non sarebbe un dramma affidare tutto ad un Commissario, specie se il suo lavoro venisse accompagnato via via da piccole e grandi riforme, serie e non di sola facciata, in tema di Governance. Auguri Italia.
(questo articolo, con il consenso dell’autore, è ripreso da www.thedotcultura.it)
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