Dopo tre decadi il regime cinese non ama ricordare il 4 giugno 1989 quando centinaia di persone sono state uccise a Piazza Tienanmen perché invocavano dei cambiamenti. Il governo di Pechino ancora oggi nega la strage e si limita a parlare genericamente di incidenti di piazza provocati da elementi controrivoluzionari. Il partito comunista cinese ha preso anche quest’anno le sue contromisure: decine di dissidenti, tra cui le fondatrici delle Madri di Piazza Tiananmen, il gruppo che raccoglie i familiari delle vittime del massacro guidate da Ding Zilin, sono state messe agli arresti domiciliari o addirittura allontanate da Pechino per precauzione. Un destino simile a quello di dozzine di siti internet che sono stati oscurati per impedire la diffusione di fotografie e informazioni. Alcune delle maggiori piattaforme cinesi di streaming, a cominciare da Bilibili, 100 milioni di utenti, passando per YY, Huya e Douyu, hanno annunciato che a causa di un aggiornamento alcune delle loro funzioni non saranno disponibili fino al 6 giugno. Nessun nuovo utente potrà registrarsi, nessuno potrà cambiare la propria foto profilo e nessuno potrà postare i danmu, i commenti in tempo reale che appaiono sotto ai video, registrati oppure trasmessi in diretta.
Ogni riferimento alla repressione di piazza Tienanmen continua a essere sistematicamente censurato. E chiunque cerchi di commemorare le vittime lo fa a grande rischio personale e va incontro a minacce o arresti.
Dalla caduta del Muro di Berlino alle attuali sfide delle democrazie liberali i dissidenti di ogni regime totalitario, di ogni latitudine cultura e religione, hanno insegnato al mondo che la libertà è un’aspirazione per cui si dona tutto senza esitare e la libertà di un popolo esiste quando c’è l’opportunità di scegliere tra società basate sulla paura e società aperte. Descrivere, riconoscere, analizzare le parole e le testimonianze dei dissidenti significa rivalutare noi stessi, trovare la bussola in quella “crisi di valori” di cui si parla spesso soprattutto nella nostra contemporaneità dove il destino democratico di ogni Paese è cruciale per la stabilità e la sicurezza internazionale.
Il dipartimento di stato americano è riuscito a fornire la stima di sei-otto milioni di dissidenti politici detenuti per la loro “rieducazione” in quelli che il regime chiama laogai, il “riscatto attraverso il lavoro”: la versione cinese dei gulag i campi di lavoro e morte sovietici.
E per il trentesimo anniversario della strage di Tienanmen consigliamo la visione del docufilm di Pierre Haski, corrispondente a Pechino di Libération dedicato al dissidente cinese che durante tutta la sua vita sfidò Pechino: Liu Xiaobo l’uomo che sfidò Pechino.
Liu fu condannato nel 2009 a 11 anni di prigione per il suo contributo Charta08, un manifesto di 303 firmatari per i diritti umani redatto l’anno prima delle Olimpiadi in Cina che lui definì “il grande show del governo comunista cinese” e nel quale si chiedeva la democratizzazione del sistema politico del Paese. Divenne così il prigioniero politico più famoso della Cina. Il documento era ispirato a Charta 77, l’omologo dei dissidenti cecoslovacchi durante l’era sovietica.
Contro il premio Nobel per la pace conferitogli nel 2010, contro le immagine della cerimonia da Oslo con la sua sedia vuota si scagliò il pressing diplomatico del governo di Pechino, per boicottare la cerimonia di consegna del premio. Ben 19 nazioni, tra cui la Russia e l’Iran, declinarono l’invito per la serata a Oslo mentre altre cinquanta nazioni non risposero.
Ma la sua attività politica cominciò nel 1989, quando dagli Stati Uniti, dove viveva, tornò a Pechino per partecipare alle proteste di Tienanmen.
Insieme a Zhou Duo e Hou Dejian il ruolo di Liu Xiaobo fu significativo il giorno prima dell’intervento militare, il 3 giugno, gli studenti sconvolti, pronti a combattere e a morire. Liu riuscì a calmare gli studenti, a dissuaderli dal prendere le armi e al contempo negoziò con i militari per lasciar defluire i manifestanti. Un gesto che forse contribuì a salvare la vita di centinaia di persone e contrastare la repressione in atto del Partito Comunista cinese.
Nessun leader cinese ha mai fatto riferimento, nemmeno velatamente, ai fatti di Tienanmen, i giovanissimi e chi oggi ha tra 30 e 40 anni, il più delle volte ne ignorano l’esistenza. Eppure, ancor più della Rivoluzione culturale, la repressione di Tienanmen è stata rimossa dalla storia ufficiale. Ancor oggi è un è un tabù, perché mentre il Paese ha voltato le spalle al maoismo dopo la scomparsa del Grande timoniere, la Cina del 2019 si muove nel solco tracciato da Deng, leader assoluto in quella tragica primavera di trent’anni fa.
E forse la strategia di Pechino è sempre stata proprio questa: cancellare la memoria in maniera da non lasciare traccia di Tienanmen nelle generazioni di oggi e future contrastando duramente ogni forma di commemorazione.
Weibo, il social network cinese di Alibaba ha imposto la censura alla Leica la società tedesca produttrice di fotocamere di uno spot pubblicitario promozionale, intitolato The Hunt. Gran parte del video di 5 minuti è ambientato durante la protesta di piazza Tienanmen del 1989 e racconta tra l’altro di un fotografo che dalla sua camera d’albergo immortala la famosa immagine del Tank Man, ovvero l’uomo che fermò la colonna di carri armati sulla grande piazza di Pechino A questo proposito ci piace evidenziare che, curiosamente, lo spot non lo si trova nella sua versione integrale con facilità nemmeno sui nostri social, qui il link per coloro che non l’avessero visto https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/04/20/la-pubblicita-della-leica-cita-i-fatti-di-tienanmen-ma-scatta-la-censura-lo-spot-capolavoro-che-non-piace-alla-cina/5125627/
Leica si è giustificata affermando di non aver commissionato il video e di non averne approvato il contenuto, e sui siti cinesi molti utenti l’hanno criticato per aver messo in una posizione scomoda i partner commerciali nel Paese asiatico come Huawei per il quale l’azienda produce soprattutto lenti per le fotocamere dei suoi dispositivi.
Il numero definitivo delle vittime è tuttora motivo di discussione fra gli storici. La stima del governo degli Stati Uniti d’America è stata di circa 10mila persone, mentre il PCC continua a sostenere che siano morte poche centinaia di studenti, insieme a 23 fra agenti di polizia e soldati.
Nel 2019 l’autoritarismo illuminato di Xi, come lo chiama Robert Kaplan, sfida il nostro modello liberal democratico in crisi. La Cina sta tentando con successo “il ripristino dell’armonia regionale sotto una nuova e molto più sfumata versione dell’ordine imperiale”. Con la Nuova Via della Seta Pechino ridisegna gli equilibri geopolitici dell’Eurasia (non senza problemi). Una strategia di estensione del soft power cinese che spesso è riassunta con una massima di Mao Zedong: “prendere in prestito una barca per navigare nell’oceano”, ossia: raggiungere un obiettivo con mezzi altrui.
Intanto discorsi, colloqui, seminari e interviste, pronunciati dal presidente della Repubblica popolare cinese sono stati raccolti in due volumi intitolati Governare la Cina: una raccolta concepita direttamente dal Partito e tradotta in 160 Paesi del mondo, con edizioni in 23 lingue, in Italia da Giunti dove ha ottenuto il Premio Pavese per l’opera straniera.
Sul canale cinese Hunan Tv , poi viralizzato nei social è andato in onda un quiz che si chiama Studiare Xi nella nuova era , con l’obiettivo di attrarre i giovani verso il marxismo, o per meglio dire, condurli verso il pensiero del presidente di ogni cosa: oggi parte integrante della Costituzione cinese.
Alla domanda dei cronisti stranieri se, in qualche modo, il Partito ricorderà l’ anniversario di Tienanmen, un portavoce del ministero della difesa ha replicato che “la risposta arriva dai successi che la Cina ha raggiunto negli ultimi 30 anni”. Nel 1987, il pil pro capite cinese era di 251 dollari, secondo la Banca mondiale. Nel 2017, era cresciuto a 8.894 dollari, ossia si era moltiplicato trentacinque volte.
E per i giovani cinesi, che trent’anni fa eressero una statua di libertà di cartapesta in mezzo alla Piazza, l’Occidente non è più un modello. Ne è una testimonianza l’attivismo di milioni di ragazzi pronti a difendere la patria con i social e se serve anche con manifestazioni e boicottaggi in ogni controversia, dalla campagna pubblicitaria di Dolce & Gabbana a Shanghai ritenuta offensiva, fino ai divieti imposti da Trump al colosso nazionale hi-tech Huawei. Certo c’è chi è pagato per inondare internet di contenuti pro-Cina, ma in tanti lo fanno spontaneamente, orgogliosi dello status raggiunto dal Paese.
Su Tablet Magazine David Goldman nell’articolo di How Civilizations Die (and Why Islam Is Dying, Too) affronta come attraverso l’offensiva tecnologica cinese nei paesi in via di sviluppo Pechino sta espandendo gradualmente la sua influenza.
Sui russi abbiamo un immaginario di decenni di spy story, una conoscenza sicuramente superficiale ma che ci permette di orientarci. Sui cinesi, invece poco e niente. L’intelligence cinese agisce con modi differenti da quelle russa e statunitense. Eppure i loro uomini si stanno infiltrando nei governi occidentali, in maniera più lenta, ma con una capacità di penetrazione molto elevata. Mettiamo come obiettivo una banalissima “spiaggia”. Come racconta il decano del giornalismo spionistico David Wise, i russi ci manderebbero un sottomarino e i loro sommozzatori con il favore della notte riempirebbero secchi di sabbia e li riporterebbero a Mosca. Gli Usa userebbero un satellite per collezionare milioni di informazioni. E la Cina? La Cina ci manderebbe migliaia di turisti, ognuno con il compito di raccogliere un granello di sabbia. Al loro ritorno dovrebbero solo scrollare gli asciugamani, e alla fine Pechino conoscerebbe la sabbia di quella spiaggia molto meglio di ogni altro. La Cina ora si propone di esportare il suo modello al sud-est asiatico, all’Asia centrale, all’America latina e a parti del medio oriente e dell’Africa. Le stesse tecnologie cinesi che hanno tirato fuori dalla povertà assoluta miliardi di est asiatici, nonché trasformato l’eterno rischio di far la fame in prosperità e sicurezza economica, possono dare ai regimi dittatoriali strumenti di controllo sociale fino ad ora inimmaginabili.
La tecnologia 5G, fonte di aspre contese tra Stati Uniti e Cina, è un fattore cruciale. Per il settore militare, è ciò che rende possibile il controllo di enormi quantità di armamenti automatici, come i droni, in grado di surclassare le difese antimissilistiche. Per l’industria, è ciò che consente ai robot e ai dispositivi di controllo di scambiarsi enormi quantità di informazioni a velocità 2.000 volte più elevate di quanto concesso dal 4G Lte. Rende anche il costo di estendere la rete alle case private molto più basso, trasmettendo via onde aeree più dati di quanto non sia possibile fare con la fibra ottica. I paesi in via di sviluppo saranno in grado di adottare direttamente il 5G a costo molto inferiore, e in tutto questo Huawei è il fornitore più economico e pure il più tecnologicamente avanzato.
L’ambizione di Pechino è quella di diventare il leader entro il 2030 nell’intelligenza artificiale (IA o Intelligenza aumentata AI) e il campo nel quale la Cina intende eccellere e quello del riconoscimento facciale. Il software è presente in oltre 100 milioni di dispositivi mobili made in China. Ed è già stato sperimentato anche sulle telecamere di sicurezza che contano in Cina una rete di 176 milioni di telecamere di sorveglianza che controllano 1,3 miliardi di persone. Questa rete diventerà sei volte più grande nel 2020. A confermare la passione del Governo cinese sulla sorveglianza globale.
Su molti prodotti occidentali applica superdazi e invita le aziende straniere a investire sul suo territorio imponendo dei soci locali che rubano segreti industriali e tecnologici. Regole asimmetriche, che ebbero una giustificazione quando alla fine del millennio venne negoziato l’ingresso di Pechino nell’Organizzazione mondiale del commercio. Quella Cina poverissima aveva bisogno di agevolazioni per integrarsi. In vent’anni ha fatto progressi prodigiosi, alcuni settori della sua economia sono a livelli giapponesi.. Ma Pechino gode anche di un altro un “vantaggio” competitivo, se così possiamo definirlo peculiare del suo controllo : l’assenza di regole in materia di privacy in difesa dei suoi cittadini. L’Economist ha descritto come il governo cinese abbia usato la tecnologia dell’IA nella provincia dello Xinjiang trasformandola in uno Stato di polizia e di apartheid (www.economist.com/briefing/2018/05/31/china-has-turned-xinjiang-into-a-police-state-like-noother)
Per Larry Diamond autore e curatore del libro Authoritarianism goes global? c’è una politica delle potenze non democratiche, tra cui la Cina, fatta di investimenti, aiuti, media nuovi e tradizionali, organizzazioni non governative attraverso cui i nuovi totalitarismi guidano l’assalto, alle democrazie. Si chiama soft power la capacità di uno Stato di attrarre a sé altri Stati e altre opinioni pubbliche verso le sue politiche e i suoi valori. E questo è l’aspetto più interessante, e allo stesso tempo più preoccupante, del nuovo rapporto tra autoritarismi, capitalismo e democrazie liberali. La sfida al pluralismo e alle libertà individuali è diventata più efficace e subdola, complice anche la debolezza strutturale delle democrazie occidentali nell’organizzare il proprio consenso domestico e le proprie strategie diplomatiche militari esterne.
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