Israele è spezzata in due, mentre nelle ore del grande sciopero contro la riforma giudiziaria due attacchi terroristici si aggiungono alla catena che in due settimane ha fatto dieci morti in cinque attacchi. Ieri su un bus pieno un ragazzino di 13 anni ha preso a pugnalare gli astanti, per sbaglio una guardia ha ferito un ventenne ora in fin di vita. All’incrocio di Tapuah un’auto si è lanciata sulla folla. È stato di emergenza: e il governo ha tentato l’unità quando ieri non si è tirato indietro di fronte al monito del presidente della Repubblica Isaac Herzog, ha accettato la tregua e il dialogo proponendo un incontro immediato. Una lettera a Yair Lapid, capo dell’opposizione, e a Benny Gantz, ex ministro della Difesa, aspetta una risposta: «È giunta l’ora – dice la lettera – non lasciamo vincere gli estremisti, non abbiamo un altro Paese».
Israele in questi giorni è stato un ring di wrestling, una gara di condanne sommarie, una serqua di accuse di «fascista» e «traditore». Ieri una grande marcia di 100mila persone è arrivata fino alla Knesset. La tensione è tale che il presidente della Repubblica si è assunto, con un discorso alla nazione, il ruolo del pacere. Herzog, il volto pallido, molto diverso dal solito dell’ironico e educato figlio del fu presidente Chaim Herzog, si è rivolto alla nazione spaccata pregandola «dal profondo del cuore e fra le lacrime», come la famiglia dei fratellini di sei e otto assassinati venerdì, di «non cadere nell’abisso nel fuoco della polarizzazione che ci consuma» ed ha spiegato: «La totalità delle parti della riforma nella sua forma corrente solleva profonde preoccupazioni su un suo potenziale impatto negativo sulla democrazia di Israele». Herzog ha spiegato a lungo: la riforma ci vuole, ha detto, secondo un’opinione diffusa anche a sinistra, ma non nei tempi previsti, troppo accelerati, e con la procedura corrente. Herzog ha presentato un piano in cinque punti, che prevede di ancorarsi a una solida Costituzione, oggi inesistente, e non solo al parere della Corte Suprema; la decelerazione; la revisione del sistema di elezione e partecipazione dei giudici e anche un limite preciso al loro potere. Tutto da discutere faccia a faccia fra consensi e critiche.
Di che si tratta? Negli anni ’90 fu promulgata la riforma del giudice Aron Barak che prevede un sistema quasi del tutto cooptativo nell’elezione dei giudici e della Corte Suprema, col potere di cancellare leggi votate, al contrario dell’Inghilterra o del Canada o di tanti altri Paese dove cancellare una legge è assai arduo. Oggi i giudici e la Corte Suprema sono scelti da un comitato di 9 membri, 3 della Corte Suprema stessa, due dalla autonoma associazione degli avvocati, il ministro della giustizia più un altro, e due MP, uno della coalizione e uno dell’opposizione. La critica attuale è quella che di fatto i giudici hanno così 7 voti e rinnovano senza fine la loro politica. Un sistema unico: in 30 Paesi il sistema giudiziario non partecipa alla scelta. In 9 chi incarica i giudici è a sua volta incaricato dal governo. La nuova legge invece politicizza la Corte: 11 membri con 3 giudici, sette della maggioranza, uno dell’opposizione.
Ciò naturalmente cambia a ogni elezione. Se si oblitera una legge il Parlamento può ridiscuterla. Legittimo essere contro. Tuttavia Netanyahu non dà segni di autoritarismo: le strade, le radio, le tv, la commissione giustizia sui cui banchi si urlava oggi, proseguono indisturbati. E Bibi ha già governato 11 anni. Il sindaco di Tel Aviv si è slanciato: «Le dittature nascono sempre dalle elezioni» poi si fermano solo «nel sangue». Ehud Olmert ha auspicato «guerra, non chiacchiere». Sembra il governo di Netanyahu faccia saltare i nervi a molti.
(questo articolo, già pubblicato da Il Giornale del 14 febbraio, è ripreso con il consenso dell’autore
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