Ormai la tendenza è costante e crescente: da circa dieci anni la partecipazione al voto si riduce sempre di più, ad ogni tornata e ad ogni livello. Anche le elezioni politiche, che avevano fin qui mantenuto un’affluenza alta, hanno visto a settembre 2022 un calo di oltre dieci punti rispetto a cinque anni prima, attestandosi al 63%. Domenica 12 febbraio, nelle elezioni regionali, ha votato il 37,2% di elettori laziali e il 41,61% di elettori lombardi.
Immancabili sono i commenti “rattristati” dei politici, che non vanno però oltre l’amara constatazione del fenomeno, rapidamente archiviata dall’analisi del voto che li ha riguardati: ai politici interessa chi va a votare, non chi non ci va. La spiegazione è banale, visto che sono i partecipanti al voto a determinare le vittorie e le sconfitte, i seggi conquistati e le maggioranze di governo, ed è a loro che i politici utilitaristicamente si rivolgono perché da loro dipendono. Mentre sono indipendenti da coloro che a votare non ci vanno, nel senso che non hanno il problema di rappresentarli e di rendere loro conto.
Nelle poche che seguono righe proverò a sviluppare qualche riflessione su questo punto, se cioè l’astensionismo sia sentito davvero come problema dalla politica e come invece lo sia davvero.
Prima, però, vorrei discutere sulle ragioni prevalenti che generalmente vengono addotte per spiegare il fenomeno dell’astensionismo.
Innanzitutto, la teoria politica ha sempre ritenuto fisiologico un calo dei votanti nelle democrazie mature; infatti, se andiamo a vedere, negli stati anglosassoni del secondo dopoguerra l’affluenza alle urne si è sempre attestata attorno alla maggioranza assoluta o poco più degli elettori, e ciò non è mai stato considerato un vulnus per la democrazia. Così, anche nei paesi dell’Europa meridionale, il calo graduale di votanti che è iniziato attorno agli anni Ottanta non ha costituito all’inizio motivo d’allarme. In Italia, in particolare, il processo di de-ideologizzazione della politica e la fine dei partiti di massa hanno determinato la riduzione del peso dell’appartenenza politica nel profilo identitario degli individui; in tal modo il voto viene sempre meno percepito come dovere (dovere di sostenere la propria parte politica) e sempre più come diritto, in quanto tale esercitabile in piena libertà, compreso il suo non esercizio.
Intesa come espressione di libertà, non come contestazione del sistema ma piuttosto come fiducia verso il sistema stesso – una fiducia tale da delegare chi va a votare – l’astensione farebbe dunque parte del rapporto tra cittadini e politica in una democrazia avanzata.
Questo argomento “ottimista” ha mancato di segnare però la soglia oltre la quale l’astensionismo da fenomeno fisiologico può diventare patologico: cioè quando l’astensionismo, da segnalatore di funzionamento della democrazia, indica invece una sua possibile crisi, una sua malattia.
L’astensionismo di oggi viene segnalato come crisi, e le cause che gli vengono attribuite appartengono a due categorie: la prima è quella della delusione, la seconda è quella della disaffezione. La delusione appare come effetto residuo delle antiche identità politiche: esaurite quelle, l’elettore non si riconosce più in nessuna offerta politica, che anzi considera inadeguata, lontana dalle sue aspettative. Lo stato di delusione è soprattutto attribuito all’elettore di sinistra, il quale, memore di un passato nel quale la politica veniva anche attivamente esercitata – nel partito, nel sindacato, in associazioni collaterali – e per questo riconosciuta come parte del proprio essere, oggi vive un senso di estraniazione nei confronti di una sinistra, alla quale non partecipa più attivamente o solo in minima parte. La proposta politica, che prima poteva essere metabolizzata – anche se non pienamente condivisa – perché oggetto di una partecipazione ben più ampia del solo momento elettorale, oggi o è attrattiva in quanto tale (con le tecniche comunicative, o con la mediazione di un/a leader) o non mobilita e allontana.
La categoria della disaffezione sembrerebbe riguardare invece trasversalmente tutto l’elettorato; si tratterebbe dell’allontanamento delle istituzioni, incapaci di dare risposte adeguate e tempestive ai bisogni dei cittadini, viste come autoreferenziali e staccate dai mondi vitali. Questo fenomeno era stato in qualche modo previsto da Norberto Bobbio il quale, nello scritto Il futuro della democrazia, parlava delle sue “promesse non mantenute”. Bobbio individuava, tra i problemi crescenti del sistema democratico, quello della sua efficienza. La modernità ha emancipato la società civile dal sistema politico, e la società è diventata “una fonte inesauribile di domande”. “Ma come può il governo rispondere se le domande che provengono da una società libera ed emancipata sono sempre più numerose, sempre più incalzanti, sempre più onerose? … La quantità e la rapidità di queste domande sono tali che nessun sistema politico per quanto efficiente è in grado di adeguarvisi”. Da qui deriva il sovraccarico e quindi la scelta. Ma le domande escluse e non soddisfatte creano malcontento, sfiducia, disaffezione.
A partire dalle ultime elezioni politiche l’attenzione è stata rivolta alla dimensione sociale di questa disaffezione. I votanti del 25 settembre 2022 sarebbero composti dal 70% delle classi medie e alte e dal 20% dei ceti più poveri. Ci stiamo adeguando ad un trend già analizzato in Europa nel 2018 dall’ European Social Survey, un’indagine secondo la quale, durante il periodo 2008-2018, la partecipazione elettorale della parte socialmente più bassa della popolazione risultava 7 punti sotto la parte media, e di ben 17 punti inferiori alla parte più ricca. L’incidenza delle risorse sulla partecipazione politica non è certo una novità, né una sorpresa. Ma se questo dato andrà ad accentuarsi diventerà un problema enorme per la qualità della democrazia, perché collocherebbe fuori dalla voice e dalla rappresentanza una parte peraltro crescente del paese, secondo di dati ISTAT. L’astensionismo è un rischio non in sé, ma quando si connota come atteggiamento precipuo di una parte precisa di popolazione, che sceglie non la contestazione per esprimere dissenso – organizzandosi di conseguenza – , bensì l’exit. L’uscita dalla rappresentanza di questi elettori provoca l’uscita dei loro bisogni dalla sfera politica e di governo.
Per i politici questo fenomeno consente loro un doppio sgravio, di istanze e di rendicontazione; decade da sé una parte di richieste della società e non c’è da rendere conto del perché. Infatti, l’agenda politica è povera di temi sociali, il welfarepuò essere tagliato ancora e i disoccupati sono denegati. Con la chiusura del reddito di cittadinanza, che aveva creato una domanda e un’offerta politica, è probabile che la forbice si allarghi ancora di più.
Se queste prime considerazioni sull’astensionismo sono credibili, davanti alle sue dimensioni crescenti non dovremmo dare risposte troppo frettolose e unilaterali. Occorre scandagliare, di volta in volta, dentro la porzione di non voto, la componente fisiologica – quella tollerabile e funzionale al sistema – e la componente patologica – quella che esprime avversione, risentimento e crisi. Dovremmo farne oggetto di analisi, cosa che mi pare nessuno faccia perché le società di rilevazione operano per lo più su commissione di partiti o di agenzie politiche, interessate a quello che pensa chi vota, non chi non vota. Dovremmo, nei sondaggi quotidiani sull’orientamento di voto, aggiungere in premessa la domanda: lei voterà o no? E se la risposta è no, chiedere perché. Analizzare le risposte a queste domande. Incalzare la politica per re-includere chi ha scelto l’exit.
Ma c’è qualcuno interessato alla re-inclusione?
I politici non sono poi tanto interessati, anzi meno gente va a votare meno aspettative ci sono da soddisfare. Una democrazia meno partecipata è più comoda e agevole per chi abita le stanze del potere, perché riduce il lavoro e la competizione. Quando si dice che le elezioni si vincono al centro, per esempio, si prende atto che i votanti stanno in un’area connotata politicamente e socialmente, ed è certamente più facile provare a spartirsi una fetta più definita che non andare a resuscitare un sottosuolo largamente ignoto, imprevedibile e nascosto. Inoltre, se meno persone sono attive politicamente, meno saranno i potenziali candidati a ricoprire cariche, più alta la percentuale di eleggibilità per chi si candida. Insomma, l’astensionismo fa comodo a chi fa politica. Almeno finché quella massa nascosta non riemerge. E allora le cose potrebbero cambiare anche radicalmente.
Oggi però non sembra alle viste una riemersione, ma piuttosto una più ampia immersione.
Allora la domanda è: quanto le spiegazioni ad oggi più accreditate sono effettivamente aderenti alla realtà? Possibile che l’elettorato di sinistra sia ancora così fortemente condizionato da un passato che ormai risale a quaranta anni fa? E’ sufficiente dire che la gente si sente lontana dalle istituzioni e non crede più a nessuna forza politica? E’ esaustivo pensare che il risentimento, espresso sia dalla delusione sia dalla disaffezione, definisca socialmente il fenomeno?
Io penso che ci sia di più, molto di più.
Sollevo tre punti, che non hanno la pretesa di essere definitivi, ma che tendono a enucleare una nuova categoria esplicativa dell’astensionismo: la categoria dell’inutilità della politica.
1) La progressiva autonomizzazione della società civile dalla politica, di cui ho già parlato prima richiamando Bobbio, non ha soltanto “laicizzato” il rapporto tra i cittadini e lo Stato, ma ha ridimensionato l’importanza dello Stato stesso. Quanto della vita di un individuo è segnato dall’agire politico e quanto dalle sue scelte, dalla fortuna, dalle relazioni con gli altri? Fatto salvo il rispetto delle regole di convivenza civile, la politica fornisce sempre meno risposte ai valori preminenti di una persona. La politica è inutile a molti nostri scopi. L’idea dello Stato minimo, propugnata dagli ultraliberali che hanno portato all’estremo l’idea lockiana della politica come male necessario, si sta affermando non soltanto in rapporto al primato dell’economia di mercato, ma anche grazie alla perdita di senso della politica di fronte alle grandi questioni della vita e della società.
2) Questo fenomeno della perdita di senso della politica non riguarda soltanto chi sta bene e può provvedere da sé al raggiungimento del proprio bene, ma anche chi della politica avrebbe in teoria bisogno, come appunto chi ha meno risorse e dovrebbe godere di sostegno pubblico. Anche in costoro, più che lo stato del risentimento, è l’idea dell’inutilità della politica a spingerli fuori. Per sopravvivere, per riscattarsi, per trovare aiuto, meglio affidarsi alle reti di solidarietà, ai rapporti personali, a pezzi di società che si auto-organizzano in gruppi di auto-aiuto, in esperienze mutualistiche che producono nuove forme comunitarie. C’è una politica non-politica, che nasce e cresce fuori dai canali istituzionali, e dà risposte più efficaci alle domande di senso e ai bisogni quotidiani. E’ una realtà che sta emergendo, e che andrebbe studiata in relazione alla crisi della politica ufficiale.
3) C’è infine un terzo punto che è più radicale, nel senso che i primi due potrebbero essere presi in carico da un ritorno al primato della politica, rispetto all’economia, alla scienza, alla tecnica (sembrava che davanti alla pandemia una nuova centralità della politica e della dimensione pubblica potesse riaffermarsi), mentre questo dovrebbe rimettere in discussione le fondamenta del sistema politico: la crisi della rappresentanza. In una società postmoderna, pluralista, multiculturale, è sempre più difficile sentirsi rappresentati da un unico gruppo, partito, movimento. Di un programma elettorale, potremmo condividere una parte, difficilmente il tutto. Questo produce una più alta volatilità elettorale, perché di volta in volta un elettore potrebbe dare importanza ad una proposta o ad un’altra e per questo cambiare partito e addirittura coalizione; oppure può produrre astensione perché, non identificandoci in nessun progetto e valutando inutile il voto, si passa la mano. La retorica del voto utile disconosce proprio questa dinamica, e per questo riesce sempre meno nel suo intento. Risultato della volatilità e dell’astensione è l’indebolimento dell’istituto della rappresentanza; essa diventa più incerta, sottoposta alla critica di legittimità ed esposta ad ulteriore exit. Poiché questi esiti potrebbero erodere alla base la forma della democrazia che abbiamo costruito, e ciò dovrebbe interessare tutti al di là degli schieramenti politici, servirebbe aprire un dibattito aperto e senza pregiudizi, capace di elaborare proposte alternative a quelle semplicistiche di ulteriore riduzione della rappresentanza a modelli monocratici (come il presidenzialismo): proposte che prendano sul serio il pluralismo delle idee e diano la possibilità di votare proposte che condividiamo, anche se collocate tra partiti e schieramenti diversi. Ma questo è un tema che rimando ad altro momento. Per ora mi limito a sottolineare come l’indebolimento della rappresentanza, che anche l’astensionismo contribuisce ad alimentare, non debba e non possa essere sottovalutato difendendo il sistema così com’è.
Alessandro
Ho trovato il coraggio e la forza di smettere di fumare.
Voglio trovare le stesse capacità per smettere di andare a votare.
Perchè nella mia testa tutto si dipana, è nitido, come si fa a non vedere…
La politica è diventata una mera offerta commerciale, come un qualsiasi altro prodotto da proporre al mercato: qualcuno lo vende perchè molti lo acquistino.
E dato che la politica è assimilata ad un prodotto di una certa qualità, ciascuno invece di avere il coraggio delle proprie idee (se le ha, ben inteso), prende dal concorrente ciò che ritiene interessante (spacciandolo per “valore comune”) col risultato che poi il “prodotto offerto” (programma politico – Partito) è uniforme, quasi indifferente.
L’effetto di ciò, è che così tutti siamo per il mercato, per la libera concorrenza, per la solidarietà (azz!), per il rispetto, per… l’amore? diciamo così, in una sola parola, invece di aggiungere altro?
L’asse politico, quello arcaico,della prima repubblica che andava dall’estrema destra a quella sinistra, oggi è diventato a confronto un piccolo segmento, tutto è compresso verso il centro.
Finanche il futuro segretario del PD Bonaccini si affanna a precisare che Meloni non è fascista; finanche Berlusconi non parla e non trova più Comunisti in Italia.
Siamo tutti centristi, politicamente corretti, esaltiamo le istituzioni democratiche come il corrotto Parlamento Europeo, siamo tutti per i vaccini, siamo tutti a difesa dell’Ucraina.
Vaccini ed Ucraina sono solo due esempi, perchè se uno afferma che gli Stati avrebbero dovuto gestire a livello globale diversamente la distribuzione del vaccino nel mondo, allora è no-vax; allo stesso modo se uno sussurra o grida che continuando con tale modalità in Ucraina andremo a sfracellarci verso la terza guerra mondiale, è pro Putin.
Un solo finale auspicio: ritiriamoci, lasciamo che tornino i Giovani, che siano Loro a commettere eventualmente gli errori per il mondo che verrà. Noi troviamoci lì, tra quelle comunità descritte da Daniela al punto 2.
Alessandro