Si parla moltissimo (a volte a vanvera) dell’autonomia differenziata per le Regioni. Tema “di bandiera” per la Lega (che ha sostenuto i referenda consultivi in Veneto e Lombardia, da anni inascoltati). Tema che sottende due argomenti distinti. Uno è proprio, puramente, di bandiera: dà soddisfazione alle pulsioni autonomiste della Lega d’antan, su cui la stessa Lega è nata, e trova il suo humus nella retorica di “Roma ladrona”, tema molto popolare e molto identitario soprattutto in Veneto. E qui, mi pare di poter serenamente dire che la questione, per la maggior parte degli italiani, e pure dei veneti, non è certo nella lista delle priorità. Il secondo tema è più serio, perché riguarda il portafoglio, ed è illustrato da questi due grafici (tratti direttamente da “La spesa statale regionalizzata” edito dal MEF, anno 2021).
La colonna di sinistra mostra quanto pro capite spende lo Stato per ciascuna Regione. Quella di destra quanto pesa questa spesa in rapporto al PIL della Regione (in qualche modo legato al contributo che la Regione stessa, con le tasse, fornisce allo Stato Centrale). Usiamo una metafora per capire l’implicazione del combinato di questi due grafici. Supponiamo che in una famiglia ci sia un figlio che lavora e contribuisce con il suo reddito al bilancio familiare e uno disoccupato. La madre darà amorevolmente da mangiare a entrambi. Tutto bene se la mamma fa una pastasciutta e due bistecche ai ferri e le dà a entrambi. Se però il figlio che non lavora pasteggia a caviale e champagne e a quello che porta i soldi a casa la mamma dà solo un tozzo di pane rancido, è comprensibile che quest’ultimo non sia molto contento. A dir poco.
Fuor di metafora, è un po’ quello che accade e mostrano le tabelle sopra. Ci sono Regioni che contribuiscono al bilancio dello Stato, con le tasse dei loro cittadini, molto di più di altre. E fin qui nulla quaestio: il maggiore o minore contributo fiscale delle Regioni, infatti, dipende dalla ricchezza prodotta da queste ed è normale che quelle più ricche diano più gettito all’Erario. Sta di fatto però che le Regioni che danno di più sono proprio quelle che ricevono (pro capite) meno e comprensibilmente non sono entusiaste della situazione. E quali sono queste Regioni? Entrambe le tabelle sopra mostrano che ai primi tre posti (anzi, meglio sarebbe dire ultimi posti..) ci sono Lombardia, Veneto e Emilia Romagna. E quali sono le tre Regioni che, nelle prcedenti legislature, avevano chiesto con maggiore convinzione forme di autonomia differenziata? Lombardia, Veneto e Emilia Romagna. Ma guarda che coincidenza!
Qual è la partita che si gioca? L’art. 116 della Costituzione (post riforma del Titolo V) dice che le Regioni possono avere ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117… Ovvero, previo accordo, lo Stato cede competenze operative. Cioè la Regione fa delle cose che adesso fa lo Stato. E quest’ultimo “remunera” la Regione per fare queste attività al posto suo. Questo “scambio” è contemplato all’art. 119:
Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni.
Quindi, detta in soldoni (e mi si scuserà per il linguaggio terra-terra), le Regioni oggi penalizzate ragionano in questo modo: se, forte della possibilità che mi dà il Titolo V, faccio alcune funzioni al posto dello Stato spendendo meno di quando lo Stato mi dà (o mi lascia) per farle (perché sono più efficiente dello Stato stesso) io ci guadagno. La ratio di questa strategia in linea di principio è corretta e peraltro non è toccata dall’obiezione (che viene comunque impropriamente posta) che questa autonomia penalizzerebbe le altre Regioni perché il guadagno è tutto ricavato sulla maggiore (eventuale) efficienza che avrebbe la Regione. Tre gigantesche difficoltà s’impingono però contro questa soluzione.
Prima difficoltà. La natura delle stesse 23 materie che ai sensi del Titolo V possono essere demandate alle Regioni. Esse sono:
- Rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni;
- Commercio con l’estero;
- Tutela e sicurezza del lavoro;
- Istruzione (fatto salvo per l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con l’esclusione dell’istruzione e della formazione negli istituti scolastici professionali);
- Professioni;
- Ricerca scientifica e tecnologica;
- Sostegno all’innovazione per i settori produttivi;
- Tutela della salute;
- Alimentazione;
- Ordinamento sportivo;
- Protezione civile;
- Governo del territorio;
- Porti e aeroporti civili;
- Grandi reti di trasporto e di navigazione;
- Ordinamento della comunicazione;
- Produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia;
- Previdenza complementare e integrativa
- Coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario;
- Valorizzazione dei beni culturali e promozione e organizzazione di attività culturali;
- Valorizzazione dei beni ambientali;
- Casse di risparmio e casse rurali;
- Aziende di credito a carattere regionale;
- Enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.
Ora, ve ne sono molte (commercio con l’estero, grandi reti di trasporto e navigazione, Produzione e trasporto di energia elettrica, Rapporti internazionali, Istruzione) che è semplicemente folle che possano essere regionalizzate. Qui è proprio sbagliato il testo del Titolo V. Ed è, conseguentemente incomprensibile l’insistenza di Veneto e Lombardia nel chiedere l’affidamento di tutte le 23 materie. Perché questa richiesta parte già con il fardello della sostanziale mancanza di buon senso. Non di legittimità, perché in effetti la Costituzione dà loro la facoltà di chiederle ma di percorribilità, appunto di buon senso, che si troveranno sempre come argomentazione contro (e con piena ragione) da chi si oppone (per convinzione o per opportunità politica).
Seconda difficoltà. La quantificazione delle maggiori risorse da riconoscere alle Regioni che si assumono attività prima centralizzate. Invito a consultare, per un’analisi approfondita, l’articolo pubblicato dagli amici di SoloRiformisti https://www.soloriformisti.it/solo-riformisti/ a firma del prof. Alessandro Petretto https://www.soloriformisti.it/autonomia-regionale-e-finanziamento-delle-regioni/ che ben descrive l’estrema complicazione della questione. In estrema sintesi: vi sono materie soggette ai famosi LEP (Livelli Essenziali di Prestazione), tipicamente legati all’assistenza e materie che evidentemente non lo sono. Per le prime, dove lo Stato si deve assumere l’onere di garantire a tutti appunto livelli minimi di assistenza, è in atto la gigantesca querelle per stabilire i LEP stessi (cosa che si avrebbe dovuto fare da tempo e non in correlazione al decentramento di competenze) ma siamo in alto mare. Non solo: la definizione dei LEP trascina con sé il tema delicatissimo della definizione dei famigerati “costi standard”: l’ambizione sarebbe non solo di fissare dei livelli di servizio garantiti in tutto il Paese ma pure di stabilire quanto deve costare questo servizio (in condizioni di efficienza). Si intuisce facilmente quanto la questione dei costi standard possa scoprire il vaso di Pandora delle inefficienze delle Regioni (tendenzialmente proprio quelle che si oppongono alla concessione dell’autonomia alle Regioni richiedenti). Infine, ci sono i riconoscimenti per le attività non soggette a LEP. Per queste, apprendo dal prof. Petretto nell’articolo sopra richiamato “Le Spese non LEP, destinate al finanziamento delle altre funzioni, troveranno copertura nell’autonomia tributaria, ovvero tramite la modifica dell’aliquota base dei tributi propri”. In pratica, se capisco bene, l’unica concessione dalla Stato centrale sarà la libertà di tassare di più i propri cittadini.. un successone.
Terza difficoltà. La pochezza della posta in gioco. La cosa stupefacente è che questo po’ po’ di casino nasce su una posta finanziaria risibile. Se si esclude l’eventuale trasferimento dei costi dell’istruzione scolastica, molto significativi ma “passanti” (sono tutti stipendi del personale non comprimibili quindi se passassero sotto la Regione questa con una mano li prenderebbe dallo Stato e con l’altra li girerebbe al personale scolastico in una partita di giro a saldo zero), la stima dei costi statali per (tutte) le 23 materie nel Veneto nel 2018 è di 218 milioni (dati pubblicati dal Gazzettino il 28 dicembre 2018). A fronte di un bilancio della Regione Veneto di 12790 milioni.. frattaglie dunque. Pertanto, anche che miracolosamente lo Stato girasse questi costi a piè di lista (prospettiva come abbiamo visto inverosimile), detratti da questi i costi da sostenere per svolgere queste funzioni, il “guadagno” sarebbe del tutto irrilevante.
Conclusioni: l’esigenza di riequilibrare i rapporti con lo Stato centrale in termini di dare/avere da parte delle Regioni più ricche è giustificata, in linea di principio. Tuttavia, cercare la strada attraverso l’autonomia differenziata è viziato in partenza dal fatto che molte delle 23 materie teoricamente decentralizzabili in realtà non lo sono sulla base del buon senso (e sarebbe un errore sesquipedale decentrarle), si scontra con grandissimi problemi di applicabilità, pratica e politica, e in ogni caso la leva economica offerta da quest’opportunità è risibile. Eppure, da parte dei sostenitori dell’autonomia differenziata sembra che sia questione di vita e di morte e la “liberazione” da chissà cosa, da parte degli oppositori si (stra)parla di “secessione dei ricchi”, di trasferimenti di risorse dal Sud al Nord, di sottrazione alla fiscalità nazionale di gran parte delle tasse. Una colossale mistificazione dall’una e dall’altra parte, per lo più in buona fede (cioè ci credono davvero!).
Siamo proprio uno strano Paese.
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