Il PD nasce dall’incontro fra la cultura del comunismo democratico italiano e la cultura sociale cattolica. In termini politici dall’incontro fra l’ex PCI e la ex DC sociale. Il nuovo PD cosa dovrebbe mantenere e cosa dovrebbe aggiungere a questi filoni culturali?
Non sono d’accordo con chi dice che la nascita del PD sia stata una fusione a freddo di stampo verticistico. Le radici di un solido rapporto tra comunismo italiano e cattolicesimo democratico risalgono agli anni ’70, basti ricordare tutto il dibattito sul compromesso storico.
A partire dagli anni ‘90 abbiamo visto poi esperienze di governo locale in migliaia di Comuni con amministrazioni a guida congiunta popolare/diessina, capaci spesso di amministrare in modo capace e al passo con i tempi. Le criticità non sono a mio avviso quindi da individuare negli aspetti ideologici ma quanto nella gestione del partito e nella sua “forma”. Per certi aspetti, ed estremizzando il concetto, il PD sembra aver ereditato la “pesantezza” strutturale del PCI (sia chiaro, che andava bene negli anni ’70) e il correntismo sfrenato della DC, quando in realtà sarebbe stato preferibile il contrario, ovvero che ereditasse la compattezza del PCI, perlomeno rivolta all’esterno, e una certa agilità politica della DC. Su questo bisogna lavorare, e non sarà semplice.
Il PD è nato come partito a vocazione maggioritaria. È ancora attuale questa impostazione?
Sì. La vocazione maggioritaria è essenza stessa del PD. La nascita del PD avviene per dare una casa non solo ad una parte del riformismo italiano, ma a tutti coloro che sentono di appartenervi. E quindi il PD ha l’obbligo di farsi interprete sia di chi si sente socialdemocratico ma anche di chi si sente più vicino a un pensiero liberaldemocratico. Certo, i congressi poi stabiliscono la linea politica, ma non devono mai essere la base per escludere una delle due componenti. La vocazione maggioritaria va intesa in questo senso, nel saper rappresentare una larga fetta di popolazione italiana. Poi il contesto storico fa il resto, è chiaro che in quello attuale pensare che il PD possa governare da solo è follia, mentre non lo era in epoca veltroniana.
Il problema delle disuguaglianze sociali è uno dei principali fenomeni da affrontare nell’attuale fase dello sviluppo economico mondiale. Nella tradizione della sinistra italiana questo tema è vastato affrontato principalmente attraverso un approccio laburista. Diffondere formazione e competenze, abbattere blocchi all’ingresso nel mondo del lavoro e favorire la collocazione dei gruppi e dei singoli svantaggiati attraverso serie politiche attive. Il Reddito di cittadinanza propone un altro approccio al tema. Cosa pensi in proposito?
Siamo ormai da decenni in fase di arretramento sul fronte dei diritti dei lavoratori e questo ha portato da parte della sinistra europea un approccio (comprensibile per certi aspetti) di difesa delle conquiste avvenute negli anni ’70. Questo atteggiamento spesso è stato foriero di un atteggiamento esclusivamente conservatore rispetto a riforme, che spesso, si ricordi l’epoca berlusconiana, andavano in una direzione opposta rispetto all’ampliamento dei diritti. Sarebbe stato auspicabile, invece, un approccio che fosse anche di rilancio, con controproposte di rinnovamento e al passo con i tempi. Il reddito di cittadinanza in una fase storica estremamente critica ha rappresentato un’ancora di salvezza per milioni di persone. Di principio non è un errore, ma di sicuro la gestione del ricollocamento dei percettori non ha funzionato.
Sul tema ambientale col PD ha scelto una strada netta: decarbonizzare il sistema per cercare di delimitare gli effetti negativi del cambiamento climatico e puntare su un serio piano di mitigazione degli effetti. Il piano per la mitigazione richiede forti investimenti per i prossimi trent’anni. Siete disposti a sostenere più investimenti e meno spesa corrente? E a dirottare investimenti verso la mitigazione (acqua, rischi naturali, calore innalzamento del mare etc.)
Sì. Un partito riformista e di sinistra non può ignorare questi aspetti, soprattutto di fronte a una destra che spesso sul tema ha venature negazioniste. Certo è che bisogna saper comunicare le proprie scelte ai cittadini, per evitare di essere percepiti come “radical chic” che discutono di ambiente in salotti buoni mentre la destra aiuta le classi disagiate. Lo sappiamo che non è così, ma se non lo si comunica è come se lo fosse.
Il rapporto stato mercato è un punto sensibile per la sinistra. C’è tradizionalmente una fiducia ex ante forte per lo stato, mai verificata ex post, e d’altra parte una sfiducia non sempre motivata sul mercato. Il nuovo PD come deve posizionarsi sulla dicotomia stato/mercato?
Penso che il PD rispetto al tradizionale approccio della sinistra italiana abbia già fatto una riflessione seria sulla dicotomia stato/mercato, e anche superato posizioni aprioristiche che talvolta hanno inquinato il dibattito sabotandolo dall’inizio. Ma anche qui vale la riflessione del punto precedente: il problema è la distanza tra ciò che si comunica (e quindi ciò che viene percepito) e ciò che si è e che si fa.
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