La mattina del 27 febbraio, tre giorni dopo l’aggressione russa, mentre stavo andando alla manifestazione della comunità ucraina di Sanremo, tornavo con la mente al primo anno del liceo, anno scolastico 1968/69, alle prime manifestazioni di solidarietà internazionale, per il Vietnam e per la Cecoslovacchia a cui, a pochi giorni di distanza una dall’altra, partecipai con entusiasmo e pieno di speranze in un mondo migliore. O forse era solo inerzia? Partecipazione a un rito collettivo al quale si aderisce senza pretendere di capire? Forse anche, però per me e per i miei coetanei, in allora poco più che bambini, era anche la meraviglia di chi si affaccia sul mondo, la voglia di restare insieme ai compagni di scuola a sperimentare momenti di libertà e voglia di autodeterminazione, in altre parole diventare grandi, unite all’istintiva propensione a stare con le vittime dell’ingiustizia e ad “aborrir tiranni”.
Lasciata l’auto al parcheggio e tornato al presente, avviatomi al luogo del ritrovo, forse non per caso Piazza Colombo proprio come una volta, mi chiedevo se da quei tempi fosse cambiato qualcosa. Per me sì, non solo perché allora ci davamo appuntamento “sotto il pino” mentre adesso il pino non c’è più e sembra essersi portato via gran parte dell’entusiasmo e delle speranze di mezzo secolo fa. Soprattutto perché oggi è il disincanto a far la parte del leone, un sentimento che allora non c’era e non avrebbe potuto esserci, semplicemente perché si trovava al di fuori dei nostri orizzonti mentali. Crescendo però, poco per volta, non sappiamo neppure dire con precisione quando e perché, abbiamo cominciato a conoscerlo, è entrato in noi e ci ha resi consapevoli che il confine tra entusiasmi e speranze da una parte e velleità e illusioni dall’altra è molto sottile, infido e sovente traditore.
Questi pensieri mi facevano sentire come se stessi compiendo un atto dovuto, dettato sì dall’etica della convinzione ma senza nessuna ricaduta sul dramma che si stava compiendo a migliaia di chilometri di distanza. In altre parole mi sentivo come se stessi andando ad un funerale, identico il senso di impotenza: che cosa avrei potuto fare oltre a commuovermi sinceramente, dire “mi dispiace” ed esprimere il tutto con un abbraccio solidale?
Sbagliavo di grosso… Mi fu subito chiaro che la comunità ucraina non era lì per interpretare il ruolo della vittima e per ricevere condoglianze e commiserazione.
Lo si vedeva dall’espressione dignitosa e fiera dei loro volti. Nei loro occhi, magari velati da qualche lacrima, si leggeva sì la preoccupazione per la loro terra, per congiunti e amici che si trovavano nei rifugi o di fronte ai carri armati russi, ma, soprattutto, la determinazione a non mollare. “Non mollare” erano le parole che mi risuonavano nella mente e mi riportavano a all’ambiente salveminiano da cui nacque l’omonimo foglio antifascista clandestino e poi, anni dopo, il Manifesto di Ventotene, il “sogno” di un’Europa libera e unita. Perché, a soli tre giorni dall’inizio, questa è stata, ed è ancora, la mia lettura della guerra in corso: resistenza di un intero popolo contro un regime totalitario che che lo ha aggredito per impedirgli di aderire all’Unione Europea e per paura del contagio della democrazia.
Gli interventi erano la conferma di quanto appena detto e lo scopo della manifestazione era evidente: da una parte denunciare l’aggressione e smentire la propaganda russa e, dall’altra, organizzare una solidarietà attiva con l’invio di aiuti, l’accoglienza per i rifugiati che sarebbero arrivati a giorni, la presenza nel dibattito pubblico e le conseguenti pressioni affinché i governi occidentali non lasciassero sola l’Ucraina.
Anche tra i partecipanti era immediatamente percepibile il desiderio di far conoscere, di raccontare. Nelle loro memorie familiari c’erano storie di deportazione, trasferimenti forzati a cui si aggiungeva la tragedia di oggi. C’era chi già aveva dovuto andar via dal Donbas o dalla Crimea nel 2014 e chi era riparato in Ucraina per allontanarsi dalle guerre del Caucaso e stava quindi vivendo per la seconda volta questa esperienza drammatica. Una giovane madre, con l’aiuto di un’amica che parlava italiano, riusciva a raccontarmi le sue vicissitudini volgendo di tanto in tanto un sorriso al figlio che teneva per mano, altre raccontavano dei bombardamenti sulle città dov’erano rimasti mariti e fratelli. Il tutto sempre con estrema dignità, data anche dalla consapevolezza di stare dalla parte della ragione.
Pur senza alcuna pretesa di sovrapporre la memoria alla storia ritengo doveroso fare in modo che queste testimonianze non vadano perse, anzi venga data loro altra voce, sempre più forte e chiara. Un coro di voci, anch’esso parte della Resistenza ucraina, e monito per ricordare che tra le rovine su cui fissa lo sguardo l’angelo della storia dipinto da Klee, ci sono anche le gli orrori di Bucha e di Karkiv.
Prima di passare alle testimonianze ringrazio innanzi tutto chi le ha fornite (i cui nomi, per ovvi motivi ho in diversi casi riportato in forma abbreviata oppure sostituito con nomi di fantasia), per la preziosa collaborazione nella ricerca e per le traduzioni Olha Bohdanivna, riferimento e anima della comunità ucraina di Sanremo, Yuliya Faccin e Mayya Husak, e gli amici della redazione di SoloRiformisti per lo spazio che ci stanno concedendo.
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