Il tempo è un argomento fondamentale per chi scrive. O meglio: la sua (eventuale) flessibilità. Per quale motivo? Anzitutto perché ha direttamente a che fare con la scrittura, con la lingua; più precisamente, con l’uso dei verbi. Il verbo è la parte variabile di un discorso, è anzitutto la parola che colloca le informazioni nel tempo, appunto. Passato, presente, futuro. C’è il tempo dello scrittore, di quanto impiega a scrivere un’opera. E nel frattempo la realtà che lo circonda muta e lui con lei. C’è il tempo del lettore, di quanto impiega a leggere un’opera. E nel frattempo la realtà che lo circonda muta e lui con lei. C’è infine il tempo di cui e con cui lo scrittore parla nell’opera che sta scrivendo. Per affermarlo, per negarlo, per instaurarci un dialogo.
Marcel Proust ha a che fare anzitutto con questo tempo, tanto da ingaggiarvi un corpo a corpo, in un duello ad armi non pari. Una penna e dell’inchiostro contro una gigantesca ed implacabile macchina di dissolvimento di tutti e tutto, quale il Tempo pare non possa non essere. L’iniziale maiuscola è ostentata nell’intera opera proustiana dedicata ad esso. Omaggio? Timore reverenziale? Nelle pagine finali dell’ultimo tomo che compone la Recherche, significativamente intitolato Le Temps retrouvé, pubblicato postumo nel 1927, ricorre più volte il verbo «cullare», anteposto al Tempo. Cullare il Tempo. Trasformare il Tempo da nemico ad amico, da spietata macchina con rullo compressore a docile motore che genera movimento perpetuo.
Forse Proust intende dirci questo: che è riuscito, sviluppando un nuovo sguardo sugli esseri umani, a vedere la vita anche come emersione di vita, non solo soppressione, annichilimento. Dopo un’estenuante tour de force fatto di giorni, mesi, anni di scrittura e riscrittura, blocco e riavvio, ora scegliendo, ora scartando parole, tempi verbali e sintassi che meglio potessero incatenare ai ricordi evocati su pagina tutta una serie di persone, cose e luoghi ormai passati ma rimasti comunque dentro la propria vita, sin dalla più tenera età, Proust ha ritrovato il Tempo, lo ha redento nel senso che quel che ha perduto a suo tempo – non riuscendolo sempre a viverlo a pieno, sprecandolo, proprio come accade a ciascuno di noi – è stato recuperato per semprenella forma dell’Arte, quella vera, e dunque di un’opera che resterà.
Cullare nell’illusione che, da figli del Tempo, si possa diventarne padri? Dondolare teneramente e lentamente, con la massima cura ed attenzione, perché quella creatura (non creata?) che è il Tempo infine si assopisca, si acquieti, pare operazione piuttosto simile ad una tecnica di autoipnosi, per cui il figlio si illude di chiudere un cerchio facendosi padre del proprio padre. Se il cerchio si chiude, inizio e fine coincidono, e il senso lineare e vettoriale del tempo è annullato. L’arte dello scrittore acquista tratti quasi magici, da incantatore. In molti casi si scopre il bluff, in alcuni invece la capacità sopranaturale è genuina, il carisma si rivela autentico. Sei davanti ad un capolavoro.
La Recherche «è la storia di una vocazione», sintetizza Alessandro Piperno nel suo nuovo libro dedicato all’amato Proust, il tentativo di far sì che vita e letteratura coincidano, nel senso di fare della scrittura, sapientemente ricercata in uno stile del tutto peculiare, originale, personale, la trama di un tempo trasfigurato in spazio della mente, dentro cui sostare e passeggiare in lungo e in largo, tanto esso è vasto, smisurato persino. Leggere la Recherche significa compiere un’esperienza totale, onniavvolgente. È forse la quintessenza di cosa possa davvero comportare essere un Lettore con l’iniziale maiuscola, ossia qualcuno che stipula un patto di sangue con lo Scrittore, che per tale risultato conseguito merita anch’egli l’iniziale maiuscola. Lo conferma questa pagina di Piperno, che è opportuno trascrivere nella sua interezza:
L’esperienza che mi stava regalando l’immersione nella Recherche era di tutt’altra natura. Come se la sua lenta, fatale, velenosa assimilazione titillasse un senso che non sapevo neppure di avere. Prova ne sia che non tutte le sue frasi lunghe e complesse mi risultavano immediatamente intellegibili. Il processo ricordava parecchio quello dell’ipnosi: la fitta pagina proustiana mi ondeggiava davanti agli occhi come un pendolo, provocando una specie di trance: la fusione tra me e il testo era talmente promiscua da favorire il dubbio un po’ bizzarro che ciò che stavo leggendo lo conoscessi già. L’aria di famiglia che respiravo era l’effetto di un trucco, lo sapevo, ma per quanto stessi lì a ripetermelo continuavo a sospettare di non essere alle prese con un nuovo libro da leggere ma con un flusso di cose già presenti in me, che quei segnetti sulla pagina contribuivano a far riemergere in superficie nel modo più libero e commovente.
Secondo Piperno questa corrispondenza perfetta tra lui, lettore del tardo Novecento, e Proust, autore di inizio Novecento, peraltro di un’opera così intima e intrecciata con una storia famigliare e privata, che affonda le proprie radici nell’Ottocento, non può che spiegarsi con lo stile. Importantissimo per ogni scrittore è trovare la propria lingua. Proust la chiamava la propria “canzone”, una musica che sintonizzi tutte le frequenze del proprio cuore, ogni suo minimo, impercettibile sussulto. La prosa proustiana è «da gustare rigorosamente col pensiero, perché se provi a sillabarla ti toglie il fiato». D’altronde, per Proust lo stile è «il solo mezzo di cui la memoria dispone per perpetuarsi» e leggendo l’inizio del Tempo ritrovato si comprende come sia «il solo modo possibile per dare sostanza ai ricordi che lo assediano».
Dove sta la malìa esercitata dalla Recherche, peraltro a livelli di diffusione ben superiori a quelli che si potrebbe supporre tenendo conto della fatica che impone la sua lettura? Forse dal fatto che si tratta di una fiaba, come suggeriva Vladimir Nabokov ai suoi studenti. Quantomeno una fiaba sui generis, che scaturisce dalle viscere di un’infanzia felice, ancor più perché rammemorata in un presente da lenire. Secondo Piperno, «ciò che accomuna Proust e Nabokov è la strabiliante capacità di cui entrambi diedero prova, di attingere a piene mani nei giacimenti auriferi offerti dalle loro infanzie privilegiate», e, sempre a suo giudizio, «almeno in questo, non hanno rivali». Da Balzac, invece, Proust avrebbe appreso quanto «la volgarità sia un ingrediente essenziale dell’arte romanzesca» e la pur raffinatissima e sontuosa Recherche ne reca abbondanti testimonianze e trova nel personaggio di Monsieur de Charlus l’elogio, se non persino l’incarnazione, del potente tratto balzachiano che da ormai un secolo si era impresso nella società borghese e tardo-aristocratica francese. Con Virginia Woolf condivide invece «il timore che la narrativa abbia raggiunto una specie di saturazione», cosicché il loro comune appartenere in qualche modo alla stagione del modernismo in letteratura li portò ad innovare e galvanizzare l’arte del romanzo sovvertendo la tradizione solo dopo averla frequentata e assorbita fino a rigettarla, non per odio bensì per eccesso di amore. Sono entrambi giunti a maturazione nel loro inconfondibile stile soltanto dopo lungo travaglio, non dotati del dono naturale che rese originali sin dall’esordio voci letterarie come quelle di Thomas Mann o Louis-Ferdinand Céline.
La riflessione che Piperno svolge su di sé in quanto lettore di Proust da oltre trent’anni è il racconto di una parabola dall’amore come passione all’amore come comprensione intima, profonda:
Ho pressappoco l’età in cui Proust morì. E mi chiedo se tale coincidenza non basti a donarmi la saggezza e il distacco per capire ciò che per tanti anni mi sono limitato ad amare. Ecco, forse l’idolatria è venuta meno, sostituita da sentimenti solo apparentemente più blandi, come l’affetto, la lealtà, la comprensione.
Quel che infine Piperno ha compreso del viaggio più volte compiuto dentro l’universo mondo evocato dalla Recherche è racchiuso in un brano prossimo alla conclusione dell’opera, là dove il Narratore confessa di come, ad un certo punto della vita, l’idea della morte gli si è conficcata dentro, così tanto che, ammette, «mi teneva una compagnia non meno incessante dell’idea di me stesso». In altre parole, ma ancora quelle di Piperno, l’insegnamento conclusivo è il seguente:
C’è un momento nella vita in cui l’idea della morte ti entra dentro e non molla più l’osso. Tutto ciò che hai intorno ti parla di fine: i ricordi, i luoghi, gli amici, gli amori lontani, le ambizioni tradite, i genitori invecchiati o estinti. Peccato che per comprendere una verità così essenziale non basti l’immaginazione […].
Anche se, personalmente, non escludo il fatto che ci sia letteratura che contagi quanto, più e prima della stessa esperienza di vita. Certi lettori hanno scoperto e subìto l’idea della morte proprio grazie all’immaginazione alimentata in loro dall’arte romanzesca e drammaturgica ben prima che l’esistenza vissuta esigesse da essi l’abbandono della fanciullezza. Yukio Mishima è uno di questi lettori, così come Proust è uno di quegli scrittori che può contagiarti anzitempo, renderti adulto anche senza esperienza vissuta. Aggiungerei infine che George Santayana aveva ragione da vendere quando asseriva che «l’amour nous rend poète et la mort, philosophe». Con Proust va leggermente corretto il tiro e proclamato che, resi poeti dall’amore in fasce, si diventa cercatori di verità scontrandosi con la morte di ciò che si ama, così che non si è mai poeti adulti se non si fa i conti con la morte. Ma, torno a ripetere, lo si può fare anche prima di vivere l’esperienza di quel tipo di perdita, massima, irrevocabile. Complice una precoce e fervida immaginazione, è già morte anche un bacio della buonanotte non dato dalla mamma prima di addormentarsi.
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