La ritirata da Kherson, una grande capitale regionale, la città strategicamente più importante occupata dall’inizio dell’invasione, è una vera e propria Caporetto per l’esercito russo; fermo restando il dato di fatto indiscutibile: in questo caso, a doversi ritirare, sono gli invasori. Persino uno dei più fedeli supporter di Putin come Surovkin, comandante supremo delle forze dispiegate in Ucraina, ha ammesso pubblicamente la sconfitta; e il filosofo ultranazionalista Dugin ha scritto (ma dopo poco cancellato) un post: “Il sovrano che non ci salva paga con la vita”, che suonava come una sconfessione e finanche una minaccia verso l’ultimo zar.
Che la guerra stia vivendo una nuova fase, caratterizzata dalla controffensiva e dall’iniziativa dell’Ucraina, è fuor di dubbio; e questo si spiega con due fattori decisivi: il primo è l’indomita Resistenza (possiamo usare la maiuscola anche per quella degli ucraini, come facciamo quando parliamo del nostro 25 aprile, o no?) di tutto quel popolo che ci ha lasciati con la bocca aperta, e meriterebbe ben altro che la tradizionale medaglia d’oro al valor militare; il secondo è costituito dalla risposta compatta degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, che si è concretizzata nelle sanzioni economiche e, soprattutto, nel rifornimento costante di sistemi d’arma sofisticati e generalmente di tecnologia più avanzata rispetto a quella della Russia.
L’avere, dunque, costretto l’armata russa a lasciare Kherson e attestarsi sulla riva destra del Dnipro è un successo di grandi proporzioni per l’Ucraina, e non soltanto simbolico. Ma è altrettanto evidente che la guerra non è finita qui, perché i russi si preparano al lungo inverno che nella loro storia passata li ha sempre avvantaggiati contro i nemici; e questo potrebbe significare che nei prossimi mesi vedremo il ritorno delle trincee e della guerra di logoramento, quasi una riedizione della Prima guerra mondiale con esiti terribili in termini di perdita di vite umane.
La pace, che tutti ci auguriamo e per la quale molti di noi pregano, non la festeggeremo a Natale e neppure a capodanno. Questo è certo. Se ne facciano una ragione i centomila pacifisti che il 5 novembre hanno sfilato a Roma, rispondendo all’appello di Giuseppe Conte e dei sindacati; alla presenza dei vertici del PD (tra i quali un Enrico Letta insultato perché “guerrafondaio”) e del M5S. Perché la pace immediata che essi invocano, attraverso lo stop all’invio delle armi, significherebbe solo la resa dell’Ucraina all’invasore con tutte le conseguenze immaginabili: fine dello Stato sovrano e del suo governo democraticamente eletto, annichilimento della cultura ucraina e sua russificazione; ma anche accettazione da parte occidentale della politica imperialista ed espansionista della Russia, per cui oggi tocca all’Ucraina e domani potrebbe essere la volta dei Paesi baltici, chissà.
C’è un’ambiguità di fondo negli appelli pacifisti di Conte, ma anche di qualificati esponenti del PD come Cuperlo che abbiamo ascoltato su La7 in un confronto surreale con Carlo Calenda: invocano il disarmo dell’Ucraina, ma non menzionano che, a partire dal 25 febbraio, il suo popolo è stato fatto oggetto della più brutale aggressione da parte dei russi mediante bombardamenti a tappeto, fosse comuni di civili, torture, violenze contro le donne e deportazioni di bambini.
E così la manifestazione di Roma ha visto, com’era prevedibile, il prevalere degli slogan contro la NATO: gli stessi dei tempi andati del PCI; a dimostrazione del fatto che l’antiamericanismo e l’antioccidentalismo sono ancora l’ideologia dominante nell’universo della sinistra post-comunista. Se a questo si aggiunge il connubio con il populismo e il pacifismo grillino-contiano, le cui simpatie per la Russia di Putin sono sempre state apertamente manifestate (come dimenticare la passerella dei militari Russi in Italia, autorizzata dal governo Conte durante la pandemia, con scopi che ancor’oggi restano da chiarire?), allora si completa il quadro della manifestazione romana: un neutralismo che non comprende la differenza tra aggressori e aggrediti e, pertanto, finisce col giocare a favore dei primi.
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