l caso ha voluto che il discorso di Liliana Segre come presidente provvisorio del Senato, in apertura della prima seduta della XIX legislatura, sia caduto proprio nel mese di ottobre, a distanza di cent’anni precisi dalla Marcia su Roma. E allora, come avrebbe potuto evitare un riferimento preciso a quel periodo della storia italiana che lei, bambina di religione ebraica, conobbe molto bene; soprattutto quando venne cacciata dalla scuola elementare a causa delle leggi razziali, o meglio, delle leggi “razziste” come le ha giustamente chiamate lei?
Ecco il motivo della “vertigine” che ha confessato di provare nel momento in cui si è seduta sul più alto scranno del Senato, il “tempio della democrazia”. È un passaggio straordinario del suo discorso e non solo per il tono intimistico, ma perché ci riporta a un tema centrale che è quello della memoria storica.
Non è scordandosi il passato e vivendo solo nell’immediato presente che si costruisce l’identità collettiva di una nazione; al contrario, avendo ben presenti quelle che sono le date cruciali della sua storia. E la senatrice a vita Segre ne ha indicate tre (25 aprile, 1 maggio e 2 giugno) come quelle che devono necessariamente diventare le più inclusive, perché devono essere celebrate da tutti gli italiani a prescindere dalla loro appartenenza politica.
Sempre il caso ha voluto che in questa stessa prima seduta sia stato chiamato a parlare il neo eletto presidente del Senato Ignazio La Russa, ex missino, poi Allenza Nazionale e oggi esponente di spicco di Fratelli d’Italia: quello che si potrebbe con buona pace definire un “post-fascista”; che ha applaudito e condiviso il discorso della Segre, e alla fine l’ha omaggiata con un mazzo di rose bianche. La Russa, poi, è arrivato persino a citare il famoso discorso che Violante tenne nel 1994 quando fu eletto presidente della Camera dei deputati, tutto incentrato sul tema della pacificazione.
La questione è dunque questa: sono finalmente maturi i tempi perché la destra che si appresta a governare l’Italia (la destra di Giorgia Meloni, si badi bene, e non più il centrodestra dei tempi di Berlusconi leader assoluto) diventi un partito conservatore che sta tutto dentro il sistema delle democrazie europee? E basterà che il presidente del Senato La Russa e la ormai certa prossima premier Meloni abbiano condannato definitivamente gli anni della dittatura e dell’antisemitismo che portarono l’Italia nel baratro della Seconda guerra mondiale?
Di Ignazio La Russa sappiamo che in passato è stato ministro della Difesa e vicepresidente della Camera dei deputati nonché senatore della Repubblica; e quindi non ci sono dubbi circa la sua fedeltà alla Costituzione democratica. Lo stesso si può dire per Giorgia Meloni che si è apertamente schierata con l’Alleanza atlantica e per il sostegno alla resistenza ucraina. Di sicuro non saranno loro a costituire una minaccia per la democrazia italiana.
Non è, dunque, l’abiura del passato e la condanna della dittatura fascista che mancano nei leader della destra italiana. Quello che ancora costituisce una zona d’ombra sono le vicinanze culturali e sentimentali di Fratelli d’Italia ai regimi illiberali dell’Europa dell’est, segnatamente della Polonia e dell’Ungheria. È questo un tema che resta ancora tutto da chiarire e che riguarda l’attualità: ’ambiguità di una parte consistente della politica italiana.
Se poi andassimo ad aprire la questione anche per l’altro partito della destra di governo, la Lega, che ha appena mandato a presiedere la Camera dei deputati Lorenzo Fontana, e quindi toccassimo il nervo scoperto del filo-putinismo (una assai deprecabile corrente di pensiero che, però, tocca in parte anche lo schieramento progressista e il fronte pacifista-neutralista), allora dovremmo dire che c’è ancora molta strada da fare perché in Italia si arrivi alla condizione, per esempio, di una grande democrazia come l’Inghilterra; dove nessuno tra i conservatori, come pure tra i laburisti, si sognerebbe mai di manifestare simpatie per Putin o Orbàn.
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