A dire Giuseppe Prezzolini (1882-1982) viene subito in mente “La Voce”, la rivista di cultura e politica da lui fondata a Firenze insieme all’amico fraterno Giovanni Papini nel 1908: un’impresa straordinaria se si pensa che i due allora avevano poco più di vent’anni e che negli anni della loro direzione la rivista annoverò collaboratori del calibro di Benedetto Croce, Giovanni Amendola, Gaetano Salvemini, Emilio Cecchi, Romolo Murri, Luigi Einaudi, Giovanni Gentile, Roberto Longhi; che pubblicò i versi di poeti quasi sconosciuti come Ungaretti, Palazzeschi, Campana, Cardarelli, Rebora; che dette vita a una collana editoriale, “I Quaderni della Voce”, pubblicando tra il 1910 e il 1922 circa 70 opere, tra cui quella di un giovane socialista che si chiamava Benito Mussolini; e che diventò un punto di riferimento fondamentale per una intera generazione di studenti, studiosi e intellettuali, persino per quelli che pur ne critivano l’impostazione antiliberale e antidemocratica come Piero Gobetti.
E proprio sulla rivista del giovanissimo Gobetti, “La Rivoluzione liberale”, il 28 settembre del 1922, Prezzolini pubblicò la famosa lettera in cui fondava idealmente la “Società degli Apoti”, cioè degli individui liberi, coloro che “non se la bevono” e che non partecipano al malaffare e alla corruzione dilaganti nella società dell’epoca, le cui cause venivano imputate alla tradizione liberale e al trasformismo giolittiano.
Inutile ricordare che esattamente un mese dopo la pubblicazione dell’articolo si faceva la marcia su Roma, ideata e ordinata da colui che aveva considerato Prezzolini un maestro e si era nutrito del suo conservatorismo rivoluzionario. Ma se Mussolini fu sicuramente prezzoliniano, almeno durante gli anni della sua formazione, al contrario Prezzolini non fu mai fascista e non vantò crediti e favori presso il suo ex-allievo quando questi diventò il Duce.
Negli anni seguenti la Marcia e la presa del potere da parte del fascismo, Prezzolini, seguendo la sua indole che lo portava ad andare sempre controcorrente, lascia l’Italia e si trasferisce a Parigi, dove lavora presso un’Istituzione culturale internazionale in qualità di rappresentante dell’Italia. Contemporaneamente, viene chiamato a tenere dei corsi estivi di letteratura italiana alla Columbia University, a New York: incarico prestigioso che gli viene conferito solo per i suoi trascorsi di giornalista ed editore, e non per i titoli accademici di cui è totalmente sprovvisto. Nel 1929 si trasferisce stabilmente con la famiglia negli States, dove continuerà ad insegnare letteratura italiana e dirigerà La Casa Italiana, sempre alla Columbia University.
Diventato cittadino americano nel 1940, resta a New York anche dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Tornerà in Italia solo verso la fine degli anni cinquanta, per stabilirsi in Costiera amalfitana, ma solo temporaneamente: disilluso e amareggiato dall’eccesso di burocrazia, di assistenzialismo e “scioperomania”, si trasferisce definitivamente a Lugano. E quando il presidente Pertini, nel 1982, gli conferisce la “Penna d’oro”, e amabilmente lo rimprovera per aver abbandonato l’Italia, Prezzolini con il suo tipico humour gli dice che, pur vivendo in Svizzera, non ha abbandonato l’Italia: perché ci viene quotidianamente a fare la spesa.
Dei suoi lunghi anni americani ci parla, con una prosa chiara e approfondite riflessioni, Danilo Breschi nell’appena pubblicato Quaderno della rivista “Il Pensiero Storico” (IPS Edizioni). Breschi, che è un acuto politologo e storico delle idee, spiega l’importanza che la full immersion, durata oltre trent’anni, nella democrazia americana ebbe nella trasformazione del pensiero politico dell’ex vociano: “Se guardiamo all’osservatore e al commentatore della società e della politica americana abbiamo un’immagine diversa dallo scrittore che aveva fondato “La Voce”, diversa dal prototipo dell’intellettuale elitario ed elitista, anti-liberale e anti-democratico, antesignano di un qualunquismo fortemente stigmatizzato in quanto inequivocabilmente anticomunista e non sufficientemente antifascista nell’Italia del secondo dopoguerra”.
In pratica, Prezzolini, che da giovane aveva condiviso l’antiamericanismo e finanche l’anticapitalismo caratteristici di tutta quella cultura delle avanguardie rivoluzionarie di sinistra come pure di destra, ora che fa esperienza diretta di una autentica “società aperta”, dove è stato chiamato ad insegnare all’Università solo per i libri che ha scritto e pubblicato (oggi la chiameremmo “meritocrazia”), compie un percorso di maturazione intellettuale – come scrive Breschi – “verso l’accettazione prima, l’adesione poi, ai fondamenti della democrazia liberale, che era scaturito da un ripensamento dell’esperienza vociana che aveva incubato una cultura che flirtava con la violenza fine a se stessa”.
Che cosa resterà del giovane e brillante intellettuale sovversivo, che aveva affascinato Mussolini ma che era stimato anche da Benedetto Croce, dopo la permanenza americana? Certamente il conservatorismo, come testimonia il celebre Manifesto dei conservatori, pubblicato nel 1972; ma non lo spirito rivoluzionario e anti-liberale. Un percorso complesso e culturalmente affascinante, illustrato con precisione nel Quaderno a lui dedicato, e che porterà il Prezzolini novantenne persino a rivalutare l’epoca giolittiana, durante la quale l’Italia si affacciò alla modernità. Per dirla con Danilo Breschi: “Si trattava di un processo di chiarificazione intellettuale, una sorta di disappannamento ideologico, a cui la lunga esperienza americana contribuì in modo decisivo”.
Danilo Breschi
Grazie all’Autore di questa elegante e puntuale recensione.
Con stima.
Danilo Breschi
Massimo
Grande intellettuale ancora molto attuale. Spero di leggere questa monografia quanto prima