Alzi la mano chi ricorda quando e perché si diceva lo SIM, e non la SIM. Erano gli anni Settanta e in Italia incombeva la stagione cupa del terrorismo. Le Brigate Rosse compivano rapine, rapimenti, attentati e omicidi come forma di lotta armata contro lo SIM, acronimo di “Stato Imperialista delle Multinazionali”. Come recitava un documento programmatico delle Br, «lo Stato Imperialista delle Multinazionali è la sovrastruttura istituzionale “nazionale” corrispondente alla fase dell’imperialismo delle multinazionali. Suoi caratteri essenziali sono: formazione di un personale politico imperialista; rigida centralizzazione delle strutture statali sotto il controllo dell’Esecutivo; riformismo ed annientamento come forme integrate della medesima funzione: la controrivoluzione preventiva».
Oggi lo stesso acronimo rimanda a ben altro, seppure con multinazionali e capitalismo abbia sempre qualcosa a che fare. SIM oggi sta per Subscriber Identity Module, ossia “modulo d’identità dell’abbonato”. Come tutti più o meno sanno, avendo almeno un cellulare in tasca, in mano o collegato agli auricolari che sta indossando mentre legge queste mie righe, si tratta di una smart card che viene inserita appunto in un telefono cellulare e consente di archiviare un numero univoco (altra sigla, IMSI, che sta per International Mobile Subscriber’s Identity) associato a tutti gli utenti di telefonia mobile di reti Gsm o Umts.
Quel che le Br pensavano fosse la sovrastruttura dell’imperialismo capitalistico da abbattere è oggi la nostra carta d’identità, nonché la catena che, volenterosi ed entusiasti, accettiamo per connetterci al mondo, dunque a ciò che riteniamo la realtà vera, viva, che ci rende contemporanei a ciò che sta accadendo. Parte integrante dell’umanità. Integrante e integrata. Volenterosi ed entusiasti non sempre, non necessariamente. Necessità è semmai connettersi. Diciamo meglio: si fa, punto. Perché? Perché tutti lo fanno. Punto e basta. Sennò sei fuori. Non solo escluso, ma inesistente. Non registrato, non pervenuto. Non stai al mondo.
La globalizzazione, almeno per come l’abbiamo conosciuta negli ultimi trent’anni, è finita con il Covid-19? Risposta: nella forma sì, nella sostanza no. All’Unione europea qualcosa avrebbe dovuto insegnare. Che cosa? La lezione che Cina e Stati Uniti avevano da tempo appreso. La prima in modo lineare e deciso, i secondi in modo contradditorio e indeciso. La lezione è la seguente: i fenomeni della globalizzazione, cioè dell’interconnessione economica e comunicativa, sia materiale sia immateriale (ovvero digitale), vanno governati per quanto e fin dove è possibile. Il più possibile, soprattutto nei momenti di crisi. Trump vinse nel 2016 anche perché propose all’elettorato americano il ritorno al governo della globalizzazione. E l’elettorato di molte aree periferiche, deindustrializzate, degli Usa aveva (e ha) chiari i costi e i benefici della globalizzazione. L’intellighenzia europeista crede ancora che lo Stato-nazione sia forma destinata a scomparire e che al governo sovrano statale possa e debba subentrare la governance di organismi sovranazionali, norme giuridiche e regolamentazioni internazionali. La norma senza sovranità è vuota e sterile, la sovranità senza norma è cieca e bruta.
Nella sostanza, però, no, la globalizzazione non arretra, c’è, resta forte quanto e più di prima. Probabilmente avanza. L’interconnessione è un processo in atto da un secolo e mezzo, come minimo. L’irretimento globale ha proseguito inesorabile e le due guerre mondiali erano solo accelerazione di quel che parevano negare. Adesso tutto è chiaro. A Robert Musil lo fu già cent’anni fa. Scriveva nel suo capolavoro: «Oggi invece la responsabilità ha il suo punto di gravità non più nell’uomo ma nella concatenazione delle cose». È l’innominabile attuale di cui parlava Roberto Calasso. È la società che abbiamo costruito ad Occidente ed esportato nel resto del globo. Ci stiamo tutti dentro questo gigantesco, gelatinoso blob rapidamente cresciuto con il passaggio alla tecnologia delle telecomunicazioni prima, del digitale poi. Già Guy Debord aveva visto con cinquant’anni d’anticipo lo spettacolo messo in scena, con tutti noi a fungere da minori o maggiori personaggi in cerca d’autore. Stiamo dentro questa scritturazione universale che non abbiano firmato ma non possiamo nemmeno stracciare, pena l’esclusione anche dalla più fugace inquadratura, partecipazione, considerazione, approvazione.
L’attuale iperconnessione mediatico-digitale ottunde molti e conviene a pochi impresari del Truman Show. Ma infine lo stesso conducente è condotto e la Rete prende forma e vita proprie. Una certa globalizzazione è pandemica. L’impresario è vittima di se stesso. Quale individuo moderno e civilizzato non ha un’identità internazionale di utente di telefonia mobile? Chi vuole comandare ha da essere analogico. Sottraendosi quel tanto che basta, fuoriesce, sta fuori e sopra il groviglio. Vigila e controlla. L’Homo Sapiens domina ancora sul Digitans. A ciò servirebbe una scuola bene intesa. A formare sempre nuovi Sapiens.
(questa articolo con il permesso dell’autore è ripreso da “ilpensierostorico.com”
Lascia un commento