In Iran le manifestazioni si stanno diffondendo per tutto il paese. Questa volta la causa scatenante è stata la morte di Masha Amini, una giovane di 22 anni arrestata dalla “polizia morale” di Teheran perché non indossava correttamente l’hijab, picchiata a sangue, e deceduta all’ospedale tre giorni dopo. Nessuno ha creduto alla versione ufficiale di una morte per arresto cardiaco, ma già il goffo tentativo di fornire spiegazioni autoassolutorie da parte delle forze dell’ordine segnala la difficoltà crescente del regime iraniano a continuare a sostenere l’obbligo del velo per le donne.
E’ stata una ciocca di capelli sfuggita alla fascia del tipico copricapo islamico a far scattare la violenza di Stato, ma le proteste non si sono fatte attendere, e le donne sono state le protagoniste assolute. Si sono riversate per strada esibendo le proprie chiome, indugiando a pettinarsele e a legarle in una coda.
Una provocazione intollerabile per il regime islamico, che ha reagito con altra repressione e altra morte. Hadith Najafi, 20 anni, era diventata il simbolo della protesta, dopo che aveva postato sui social il video che la ritraeva mentre raccoglieva i suoi capelli biondi in una coda durante un corteo; sei proiettili l’hanno uccisa nella città di Karaj.
Il regime ha dichiarato che sono 41 le persone decedute a seguito della repressione dei cortei. Secondo la ong iraniana Human Rights, invece, i morti sarebbero già 54. E sarebbero oltre 1200 le persone arrestate, a seguito di una mobilitazione che si sta allargando ad altre parti della popolazione, ai giovani, a molti uomini che chiedono libertà anche per sé.
La “polizia morale” è uno speciale reparto di sicurezza, istituito per vigilare sul rispetto dei costumi privati dei cittadini. Si tratta del rispetto della sha’ria, la legge islamica che è diventata costituzione per l’Iran, dopo la rivoluzione dell’ayatollah Khomeini nel 1979, e che prevede norme segregazioniste per le donne, l’obbligo di indossare l’hijab, la pena di morte per l’adulterio, la poligamia.
In realtà, questo regime restrittivo per le donne non ha mai avuto vita facile. Subito dopo l’abolizione del diritto di famiglia, a febbraio 1979, le donne scesero in piazza per impedire l’arretramento sui diritti conquistati durante gli anni della modernizzazione. L’obbligo dell’hijab fu ritirato dallo stesso Khomeini appena due giorni dopo la sua introduzione, perché l’8 marzo di quell’anno centinaia di migliaia di donne si mobilitarono, ed è stato reintrodotto gradualmente negli anni successivi, grazie alla dura repressione organizzata contro i movimenti femminili.
Anche durante il governo “riformatore” di Khatami, tra il 1997 e il 2005, non vi furono passi avanti per le donne, nonostante un aumento della loro presenza nell’assemblea legislativa e al governo; l’unico risultato, assai modesto, fu l’introduzione di una legge sull’aborto, tuttora vigente, che lo ammette in caso di necessità, quando è a rischio la vita della donna.
Ma quando le donne imparano a vivere in libertà, è difficile se non impossibile farle tornare indietro. Nonostante tutte le restrizioni e le norme segregazioniste, in tutti questi anni in Iran le donne sono andate a scuola, hanno studiato, si sono laureate. Il raddoppio del tasso di scolarizzazione negli anni Ottanta ha formato una generazione femminile cosciente di sé, che della lotta contro l’obbligo del velo ha fatto il simbolo della lotta per la libertà. E proprio per contrastare l’inesorabile emancipazione delle donne, gli interventi punitivi su chi non indossa il velo sono aumentati in quantità e qualità, passando dalle multe alla detenzione carceraria. E ora a vere e proprie esecuzioni.
In tutti questi anni, le manifestazioni non sono mai mancate. Si sono unite alle proteste della “rivoluzione verde”, quando il riformatore Mousavi, il coraggioso oppositore dell’ultraconservatore Ahmadinejad, contestò, senza successo, i risultati elettorali del 2009. E sono ripartite dal 2018, quando, a seguito dell’uscita degli Stati Uniti dagli accordi sul nucleare e l’introduzione di nuove sanzioni contro Teheran, l’impennata del caro vita e di un’inflazione che ha raggiunto persino il 54% hanno gettato il paese in una povertà dilagante.
La crisi economica e sociale sta facendo da detonatore di un sommovimento che il regime riesce sempre meno a controllare. A differenza del 2009, quando Mousavi poteva contare soltanto sull’appoggio dei giovani studenti universitari, oggi l’opposizione è molto più estesa. Anche il petrolio e il nucleare, da sempre risorse usate come la classica pistola puntata sui tavoli dei negoziati internazionali, oggi, nella la crisi che si è aperta con l’invasione della Russia in Ucraina, sono armi sempre più spuntate.
Non è un caso che il ministro degli esteri iraniano abbia convocato gli ambasciatori di Gran Bretagna e Norvegia, accusando i loro paesi di interferire e fomentare i disordini interni. Come era già accaduto nel 2009, il governo ha di nuovo bloccato internet, per impedire la diffusione via social delle immagini delle manifestazioni.
Ma sarà più complicato questa volta contenere l’esplosione di dissenso. La battaglia per i diritti civili si intreccia con quella per i diritti politici e quella per i diritti sociali: le donne, i giovani, persone senza lavoro. La situazione è drammatica sotto ogni punto di vista, il paese spaccato. Le autorità hanno promosso una manifestazione pro-governo, e nessuno può dire adesso che cosa succederà, se cambierà qualcosa e se le donne avranno la forza per continuare la lotta e conquistare più libertà. Un ruolo potrebbe averla la comunità internazionale, uscendo dalle sole politiche isolazioniste e lavorando per rafforzare la società civile. Adesso, con il clima di nuova guerra fredda che si respira, e con l’asse Iran-Russia, sembra impossibile.
Ma a queste donne che si sciolgono i capelli e mettono il rossetto sulle labbra dovremmo finalmente dire – e se possibile fare – qualcosa. Dovremmo, femministe occidentali, rivedere in loro ciò che hanno fatto le nostre mamme, e sentire come nostre le parole senza tempo di Forugh Farrokhzad: “Arrivo, arrivo, arrivo, / con i miei capelli, l’odore che è sotto la terra, / e i miei occhi, l’esperienza densa del buio”[1].
[1] Forugh Farrokhzad(1935-1967) è considerata la più grande poetessa iraniana. Ha dato voce alla voglia di libertà delle donne. I versi sono tratti da Saluterò di nuovo il sole.
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