Non c’è dubbio che una delle medaglie che la sinistra storica ama maggiormente, e a buon diritto, è quella dell’emancipazione femminile: i movimenti per il diritto al lavoro nella storia d’Italia sono sempre andati a braccetto con quelli della ridiscussione del ruolo familiare della donna. Poi molto più avanti nei decenni, la rivoluzione femminista ha scardinato e rimesso in discussione la sincerità e la funzionalità della rivoluzione gestita dai partiti maschi, e il femminismo è diventato il movimento destinato a rivoluzionare definitivamente la vita delle donne, mettendone il corpo e la psiche al centro e quindi decidendo, a partire dalla sua specificità e una volta per tutte, che “il personale è politico”. E quanto è vero: non c’è nessuna etichetta che possa coprire, inglobare, definire, la gigantesca lotta delle donne per la loro liberazione. Ma la determinazione a seguitare a vestire con una bandiera rossa, anche se scolorita dagli anni, la loro ascesa, è imponente. Di fatto quindi su Giorgia Meloni durante tutta una campagna elettorale su cui aleggiava già la prevista vittoria, si sono affollate le nuvole del dubbio femminista: questa donna e madre che ascende al potere, è stato detto in sostanza, non può, non deve rappresentare una vittoria delle donne, perché, in parole povere, è di destra.
La cosa è stata ripetuta per ogni dove, la Meloni è stata vista come una specie di avatar travestito da donna per scopi truffaldini. Ma non funziona: perché la verità, se ci si guarda intorno, è che se è vero che per esempio, Kamala Harris, democratica, è vicepresidente degli Stati Uniti, dall’altra parte ci sono ormai schiere di donne conservatrici che salgono al potere portando con sé il loro retaggio ideologico e politico. Sono donne diverse fra di loro: Ursula von der Leyen, la cui mentore è stata Angela Merkel fin dal 2005 quando la scelse per diventare ministra della famiglia. Nel 2017 poi è stata ministro della difesa. Presidente della Commissione Europea dal 2019 è membro della CDU, eletta in modo controverso, e quindi con tanto più merito della sua fazione, è una di quelle conservatrici che, come fece la Merkel e come appare essere anche la Meloni, si dimostrano nel tempo sempre più aperte a concessioni liberal; così è anche Roberta Metsola, anche lei conservatrice, succeduta a David Sassoli, 43 anni, proveniente dall’ala moderata del partito Popolare Europeo, eletta dal PPE di centrodestra, dai socialisti e democratici (SeD) e dal gruppo liberal Renew Europe. Se si guarda allo statuto del suo partito il Partito Nazionalista di Malta (luogo di origine e residenza della Metsola), si nota che anch’esso dall’essere un partito sospettato di appartenere addirittura alla destra filofascista, dal 2011 ha compiuto tutta una serie di spostamenti nel campo dei diritti umani, fino ad arrivare a sostenere il divorzio cui si opponeva e persino a votare il diritto al matrimonio gay. Metsola è decisamente una conservatrice, ma si può dire che esiste una linea parallela fra il sostegno che i partiti conservatori ormai sono portati a prendere in considerazione costretti dalla storia, ai diritti civili, e l’ irresistibile forza delle donne sempre più istruite, decise a gestire il potere, e ad arrivare in cima alla piramide. Abbiamo visto dunque solo in questo ultimo mese una fase pirotecnica di questo processo: Mary Elizabeth Truss, è dal 6 settembre Primo Ministro del Regno Unito, e dal giorno precedente leader del Partito Conservatore. L’ultima visita ufficiale di un nuovo capo del governo alla Regina Elisabetta, l’ha fatta lei, con molti commenti che necessariamente ne misuravano l’ attaccamento alla figura e alla memoria di Margaret Thatcher. Una donna che certamente ha portato le donne insieme al suo Paese a un più alto scalino nella storia dei rapporti fra le donne e il potere. E sì che conservatrice, lo era, eccome! Giorgia Meloni, è in queste ore il candidato destinato a diventare il primo Ministro di un grande Paese che non vuole essere secondo a nessuno nell’Unione Europea: non ha riferimenti storici immediati nella sua parte, in Italia. Non ha un mentore ideologico donna come la Von der Lyen o come la Truss. È destinata al complicato compito di disegnarsi da sola, ma vive come le altre donne della parte conservatrice quel magnifico processo universale di liberazione che è vergogna contestare, per cui solo il cielo è il limite ormai sia a destra come a sinistra; e anche per cui la donna del passato aveva una spinta sociale molto minore ad accettare le novità in atto nel mondo dei diritti. Conservare vuol dire sapere onorare la propria identità e connetterla col presente, non piagnucolare sul passato. È un lavoro difficile, ma le donne di difficoltà se ne intendono.
(questo articolo, già pubblicato da Il Giornale, è ripreso con il consenso dell’autore)
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