“L’inverno sta arrivando” è un monito, non una conclusione. La cosa buona delle stagioni di cambiamento politico e sociale è che possiamo influenzarle, se ci impegniamo a fondo.
Garry Kasparov
“Interpellare ciò che si rannicchia in fondo alle coscienze individuali, ad un livello inferiore al pensiero attivo (…) immergersi in quel magma disordinato e tuttavia coerente di idee accettate, di ordini, di figure apparentemente vaghe ma le cui ossature sono tuttavia abbastanza solide da costringere le parole ad associarsi in questo o quel modo, che insegnano a comportarsi in certi modi e su cui si trova esposta la totalità di una visione del mondo”, queste parole dedicate dal medievista francese George Duby, una quarantina di anni fa all’importanza, della storia delle mentalità (Orientamenti delle ricerche storiche in Francia. 1950-1980, in Medioevo maschio) mi sono tornate in mente leggendo L’idea russa. Da Dostoevskij a Putin, il bel libro dello slavista svedese Bengt Jangfeldt pubblicato Stoccolma nel 2017, col titolo Loro e noi. Bengt Jangfeldt sulla Russia come idea, che oggi potrebbe essere scambiato per un instant book sull’aggressione russa all’Ucraina. Sarebbe però un’interpretazione fuorviante, quasi ossimorica, perché in essa uno strumento che fa dell’immediatezza la sua ragion d’essere verrebbero associato all’analisi un fenomeno di lunga durata.
Ed è proprio in quanto dedicato alla mentalità, allo strato più profondo del vivere e del convivere, quello che cambia meno e più lentamente rispetto al trascorrere dei secoli e all’avvicendarsi dei regimi, che il lavoro di Jangfeldt sebbene realizzato cinque anni prima dell’”operazione speciale” di Putin costituisce un valido strumento di comprensione della stessa.
Pare che Mark Twain sostenesse che la storia non si ripete ma, a volte, fa rima con se stessa. Vale la pena di aggiungere che sovente le rime e le assonanze della storia sono indizi rivelatori di quelle “idee accettate (…) su cui si trova esposta la totalità di una visione del mondo”, per dirla con le parole di Duby.
La “rima” che si percepisce nelle prime pagine è sorprendente e forza il lettore, o per lo meno questa è stata l’esperienza di chi scrive, a un gioco di rimandi tra passato e presente che diventa la principale chiave di lettura del testo a conferma dell’affermazione di Benedetto Croce secondo cui la storia è sempre storia contemporanea. Questo per il lettore di oggi, perché fino a meno di un anno fa venire a conoscenza della “consuetudine secondo cui lo zar, dopo aver stretto la mano a un visitatore straniero, si lavava per evitare il contagio con idee eretiche” avrebbe suscitato il sorriso e la cosa sarebbe stata tutt’al più considerata una curiosità degna di comparire nella rubrica Forse non tutti sanno che… della “Settimana Enigmistica”. Dal febbraio ‘22 in poi, invece, la notizia lascia il segno e a fianco del bacile dello zar compare il tavolo lungo di Putin, entrambi immagini di isolamento e di distanza ostile rispetto al diverso da sé.
In questo contesto il termine “diverso” non è usato a sproposito perché se c’è una costante nell’autorappresentazione di chi governa a Mosca è quella di considerarsi guida di una civiltà superiore investita di una missione palingenetica.
È una storia che affonda le sue radici nel secolo XV, in particolare nel fallimento dell’ultimo tentativo di Conciliazione tra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli e, dopo circa venti anni, nella caduta dell’Impero Romano d’Oriente. Prima dello scadere del secolo il principe di Mosca Ivan III sposerà la principessa bizantina Zoe Paleologa e riuscirà a sottrarre la Moscovia alla sovranità dei Mongoli dell’Orda d’Oro. Tale innesto dinastico e l’adozione di simboli e rituali bizantini, tra cui l’aquila bicipite e l’uso, seppur saltuario, del termine di Zar, caratterizzano un’azione politica e diplomatica che porterà Mosca a proporsi quale capitale, guida e protettrice della Cristianità Ortodossa, Nuova Costantinopoli, anzi Terza Roma come scriveva il monaco Filofej di Pskov. Sarà il nipote di Ivan III e Zoe, Ivan IV il Terribile, con l’accettazione del mito della Terza Roma quale dottrina ufficiale, a completare la trasformazione dei sovrani russi in autocrati per diritto divino sul modello del cesaropapismo bizantino in coerenza con l’assunzione ufficiale del titolo di Zar di tutte le Russie, dato che la parola Zar, come appare più evidente nella variante grafica polacca ormai desueta Czar, deriva dal latino Caesar.
Il bacile e altri mezzi che vedremo più avanti funzionarono per più di tre secoli poi la rivoluzione bolscevica pose termine all’impero zarista, non però alla visione della Russia quale baluardo dell’ortodossia e guida dell’umanità in quanto investita di una missione universale di redenzione. Questa volta però in veste di religione secolarizzata, tutta terrena e basata non su un Dio ma su una filosofia della Storia posta a fondamento un nuovo impero.
Il potere del PCUS durò molto meno di quello degli zar, una settantina d’anni, poi dopo una fase di difficile e controversa interpretazione in cui si alternavano speranze e delusioni, tra diversi possibili sviluppi la Russia svoltò ancora una volta verso l’autocrazia.
Il resto è storia dei nostri giorni, è soprattutto la storia della costruzione del regime di Putin e della sua gestione criminale dei poteri dello stato.
Un regime particolare che ha prima rivelato la sua ferocia con la guerra in Cecenia e le uccisioni di avversari politici e giornalisti non allineati e solo in un secondo tempo si è dotato di un apparato ideologico tanto che, se riferite al primo periodo, risultano ineccepibili l’affermazione di Christopher Clark (I tempi del potere) secondo cui “il regime di Putin schiera gli strumenti della repressione burocratica, sospendendo la legittimità di opzioni politiche alternative senza occupare esso stesso un sostanziale locus ideologico”. Oggi il locus ideologico putiniano esiste ed è particolarmente affollato: gli zar e l’Urss, il periodo di Stalin in particolare, il generale Kutuzov e la sconfitta di Napoleone, il generale Žukov e la difesa di Stalingrado, lo Sputnik e il Reggimento immortale, la religione Ortodossa, il Patriarca Kirill e il fedele Kadyrov, i teorici slavofili e quelli dell’eurasismo, tutti uniti, in un Russkiy Mir che trascendendo spazio e tempo diventa mito, a far muro contro il contagio dell’eresia occidentale, che noi chiamiamo società aperta o, più semplicemente, democrazia.
E il contagio dell’eresia si inizia a combattere a scuola, vaccinando le menti. Così la pensava Usarov, ministro dell’istruzione dello Zar Nicola I, che si proponeva di “catturare le menti dei giovani per condurle in maniera quasi impercettibile” a “una profonda convinzione e una confortevole fede nei veri principi russi dell’Ortodossia, dell’Autocrazia e del Popolo, la nostra ultima ancora di salvezza e garante della forza e della grandezza della nostra patria”. Questo racconta Jangfeldt, mentre Marco Imarisio (E l’educazione patriottica a scuola si insegnerà dai 6 anni, “Corriere della sera”, 22/07/2022) informa che quest’anno in Russia anche i bambini di sei anni avranno il loro corso “educazione patriottica dei cittadini della Federazione Russa” per “formare le opinioni delle giovani generazioni sulla base dei valori nazionali avviandole verso una giusta valutazione degli eventi” il tutto, parola di Petrušev, “al fine di sviluppare una nuova generazione di patrioti”.
Tra Usarov e Petrušev scorrono due secoli durante i quali, nell’era sovietica, la nazionalizzazione della gioventù veniva realizzata, oltre che dalla scuola, tramite la letteratura per l’infanzia, i campi estivi giovanili e l’inquadramento per fasce d’età (Ottobrini, Pionieri e Komsomol). Torniamo ai nostri giorni in cui alla Duma è stato proposto un disegno di legge per la creazione di un nuovo movimento di massa giovanile sul modello dei Pionieri sovietici e coordinato da Putin in persona. Notizia questa ricavata in un breve saggio (De Florio Giulia e Inna Karmanova, Infanzia militarizzata: pratiche e tendenze del passato e del presente, in AAVV, Russia anatomia di un regime) di cui vale la pena di riportare la conclusione: non sembra difficile ipotizzare che il regime di Putin stia cercando in tutti i modi di raggiungere il controllo assoluto dell’educazione infantile per formare non più cittadini consapevoli e istruiti, ma violenti soldati di guerre infami.
Mentre Usarov si occupava di condurre i giovani sulla retta via, la rivista Teleskop pubblicava la prima delle otto Lettere filosofiche di Pëtr Čaadaev, non ne seguirono altre. Le critiche rivolte alla Chiesa Ortodossa e l’affermazione secondo cui i ragionamenti si affinano solo nel confronto tra idee diverse erano troppo per il Patriarca e per lo Zar. Così l’autore, considerato il primo filosofo russo, divenne anche la prima vittima dell’uso della psichiatria contro il dissenso, perché fu dichiarato pazzo e sottoposto a “sorveglianza medica”.
Tale pratica repressiva venne adottata presto anche dall’Unione Sovietica, il primo caso fu quello di Marija Spiridonova nel 1921, e fu perfezionata negli anni ‘50 e ‘60 con la “scoperta” di una forma di schizofrenia diagnosticabile anche in assenza di sintomi e la costruzione di ospedali psichiatrici di tipo carcerario chiamati però “ospedali psichiatrici speciali”.
Molti di questi istituti sono ancora in funzione, tutti abbiamo presente Marija Ponomarenko, la giornalista di “RusNews” detenuta nell’ospedale psichiatrico per aver raccontato l’attacco al teatro di Mariupol e le manifestazioni contro la guerra a San Pietroburgo e a Novosibirsk, ma già nel 2006 i movimenti di opposizione denunciavano il ritorno della psichiatria punitiva (Pietro Del Re, Russia, il nemico in manicomio come i dissidenti ai tempi dell’Urss, “la Repubblica”, 01/06/2006).
Altro aspetto di continuità è la tendenza a considerare i paesi dell’Europa orientale come una barriera di sicurezza a salvaguardia dei confini russi, che, di conseguenza, vanno a loro volta protetti dal contagio occidentale. Da qui una serie di interventi militari fuori dal territorio nazionale: dall’intervento in Polonia nel 1831 alla guerra all’Ucraina di oggi, passando per l’occupazione dell’Ungheria del 1956 e della Cecoslovacchia del 1968 dell’era sovietica, quando, secondo la dottrina Brežnev della sovranità limitata, le “operazioni militari speciali” si chiamavano “soccorso a un popolo fratello”.
A queste considerazioni, però, si potrebbe obiettare che diversi zar, proprio quelli che lasciarono segni più rilevanti nella storia russa, erano attratti dalla cultura e dai modi occidentali. Vero, Caterina II, uno dei volti del dispotismo illuminato europeo, dimostrò entusiasmo per Voltaire, Montesquieu e Beccaria. Solo che, scrive Jangfeldt, “l’ambizione di Caterina di trasformare la Russia in uno stato di diritto senza pari era fuor di dubbio sincera, e tuttavia non si concretizzò. Alla prima minaccia nei confronti delle fondamenta della società e della sua posizione di monarca assoluta, la sovrana batté in ritirata”.
In realtà anche gli altri zar riformatori tentarono un’europeizzazione à la carte, settoriale, limitata alla sfera culturale di un’élite molto ristretta, o a tentativi di modernizzare l’esercito, l’industria e le infrastrutture ma sempre accompagnati da politiche reazionarie e repressive all’interno e oscurantiste nel campo dell’istruzione, basti pensare che Nicola I considerava gli studi umanistici una minaccia per lo stato e giunse a vietare l’insegnamento della giurisprudenza e della filosofia. In altre parole, come ribadisce Jangfeldt, il passaggio dall’idealismo illuminista all’autocrazia repressiva fu un’evoluzione tipica di tutti gli zar russi, perché “al primo profilarsi di una minaccia alla legittimità dell’autocrazia, le ambizioni riformiste venivano abbandonate”.
Non dobbiamo però cedere al pessimismo e alla rassegnazione. Non c’è dubbio che la mentalità sia il fattore che, nel divenire storico, muta più lentamente, ma è altrettanto vero che lentamente muta. Sappiamo che a volte le crisi possono comportare accelerazioni della storia e che nel mondo globalizzato bacili finemente decorati, cortine di ferro e tavoli lunghi non bastano a impedire la circolazione di conoscenze, idee e legittime aspirazioni. Oggi vediamo che, malgrado una repressione sempre più feroce e metodici attacchi a una ancor debole società civile, qualcosa si muove in Russia: dalle proteste individuali e silenziose di chi lascia sui banchi dei supermercati cartellini con scritte contro la guerra o informazioni sulle stragi di civili, di chi scrive scrive slogan sulle banconote o semplicemente indossa un nastrino verde, alle sempre più frequenti azioni dirette di sabotaggio.
Spes contra spem, sperare anche quando sembra non ci siano più ragioni per sperare, perché poi una ragione c’è ancora. È la ragione che negli anni della guerra civile spagnola, anni in cui il fascismo da noi era all’apice del consenso, spingeva quel grande maestro di democrazia e libertà che fu Carlo Rosselli a pronunciare a Barcellona un memorabile discorso che sarebbe passato alla storia sintetizzato nel motto “Oggi in Spagna, domani in Italia”. La stessa ragione che lega le case di Kyïv, dove nei primi giorni dell’invasione le nonne aiutate dai nipoti preparavano le molotov aspettando i carri armati russi, al carcere di massima sicurezza da dove Naval’nj incita i suoi concittadini a scendere in piazza contro la guerra e contro il regime di Putin… ”Oggi in Ucraina domani in Russia”…
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