Fuori dai denti. L’accordo fra il PD e Azione/+Europa è stata un’occasione persa.
C’era la possibilità concreta, in questa tornata elettorale e per le modalità e il contesto nel quale si arrivati allo scioglimento della legislatura, di far emergere nel quadro politico italiano la novità di un polo riformista e liberal-democratico, chiaramente ancorato a quella che nel linguaggio comune viene chiamata Agenda Draghi.
L’ex governatore della BCE, chiamato a guidare il paese in un momento di grande emergenza, ha portato nella politica italiana, e in pochi mesi, delle grandi e sostanziali novità. Nel metodo, pochissime dichiarazioni, un linguaggio asciutto ed essenziale nella forma e per quanto riguarda i contenuti sempre ancorato alla realtà dei fatti. Nel merito, soluzioni politiche serie, non demagogiche, attente ai problemi sociali ma nel contempo utili ad inserire l’Italia in quella società aperta che è l’essenza delle grandi democrazie occidentali. Un modo di stare al governo lontano anni-luce da quello a cui siamo sempre stati abituati.
I partiti della maggioranza di unità nazionale sono rimasti sulle prime quasi storditi, perplessi, c’era l’emergenza sanitaria e il PNRR, e anche per la particolarità del momento sono stati al gioco. Poi via, via che la situazione è andata migliorando hanno cominciato a rialzare la testa. Del resto le elezioni si stavano avvicinando e ognuno sentiva l’esigenza di marcare il proprio territorio. Così sono cominciati i distinguo e le prese di distanze. In punta di fioretto per i più “politici”, più sbracate per i più rozzi.
Draghi, che è una persona seria, ha detto una cosa semplicissima: così non si governa e ha rimesso il mandato. Molti sono stati contenti, tanti hanno finta di dispiacersi, pochi sono rimasti male.
Di fronte ad elezioni che a quel punto erano diventate inevitabili una parte del paese, certamente minoritaria, ha sperato che potesse nascere uno schieramento magari piccolo ma che rivendicasse in toto quel modo nuovo di fare politica e di stare al governo. Del resto sembrava che “l’area Draghi” avesse non pochi sostenitori. Si stava insomma delineando un “terzo polo”, al di fuori di centro-destra e centro-sinistra, che aspirava a raccogliere quell’eredità di merito e di metodo, sia pure senza il suo principale interprete.
Solo che la legge elettorale è quella che è e i posti sono posti. Così in pochi giorni si è arrivati alla conclusione che ormai è certezza.
Si torna alla vecchia politica e ai santi vecchi. Da una parte il centro-sinistra vecchia maniera, che grida al pericolo fascista e che si compatta “contro” e non “per”, dall’altra il centro-destra che ripropone soluzioni, ricette e personaggi che sono gli stessi di tanti, tanti anni fa.
Assisteremo così ad una campagna elettorale che aumenterà lo scoramento e la disaffezione dei cittadini. Si scateneranno le opposte tifoserie e lo spettacolo sarà deprimente. Del resto i primi segnali sono già evidenti.
Si dirà. Il “terzo polo” avrebbe cambiato le cose? Un’alleanza al centro fra Renzi, Calenda, Bonino e company avrebbe fatto la differenza? Certamente no. Il risultato delle elezioni sarebbe stato lo stesso. Avrebbe vinto il centrodestra, come in effetti vincerà. Solo che si sarebbe gettato un seme che avrebbe anche potuto germogliare in progresso di tempo. Il paese si sarebbe aperto a un metodo nuovo e diverso di fare politica, quello appunto della parentesi Draghi.
“Siete pronti a questo modo di andare avanti”? aveva detto Draghi rivolgendosi in Senato a tutti i partiti.
Non erano pronti. Meglio dividersi i posti, sfumare le posizioni, dire e non dire, in modo tale che ognuno interpreti parole e accordi come gli fa più comodo.
In fondo, tutti tengono famiglia.
Roberto
Non ci resta che Matteo Renzi…