La guerra in Ucraina, intimamente intrecciata con le vicende della crisi, provocherà un taglio di un trilione di dollari all’economia mondiale, a causa di un netto calo delle previsioni di crescita per il 2022, dal 3,9% precedente le ostilità al 2,8% attuale. Un nuovo rapporto dell’Economist Intelligence Unit presume anche una durata del conflitto almeno fino al termine dell’anno, con un’alternanza di situazioni di stallo e fasi successive di riacutizzazione. Secondo l’EIU, altri due elementi pesano negativamente sugli scenari economici globali: il forte rallentamento dell’economia americana, con il rischio di una recessione, e la rigida strategia “zero-Covid” della Cina. Senza considerare un eventuale aggravamento della pandemia, con nuove varianti. Nei prossimi mesi, una contrazione economica potrebbe essere provocata da tre fattori scatenanti: una recrudescenza repentina dell’inflazione, una restrizione eccessiva delle politiche monetarie e un collasso degli assets finanziari. Inoltre, il documento di previsione economica europea di luglio evidenzia come la protratta invasione russa colpisca la UE, frenando le dinamiche di sviluppo e prolungando l’impennata dei prezzi. In questo contesto, la Commissione Europea ha ridotto le stime di primavera di quasi un punto percentuale, delineando un incremento del PIL reale del 2,7% nel 2022 e dell’1,5% nel 2023 nella UE e del 2,6% nel 2022 e dell’1,4% nel 2023 nell’eurozona. Tuttavia, le previsioni per le attività economiche e l’inflazione dipendono in gran parte dall’evoluzione della guerra e dalla disponibilità di materie prime ed energia. Nel caso di un mancato alleggerimento di questi onerosi fardelli, si potrebbe rinvigorire la tendenza verso una stagflazione profonda e duratura. Questa condizione, a sua volta, comporterebbe effetti molto sfavorevoli non solo per la ripresa economica, ma anche per la stabilità finanziaria. Quindi, nonostante la dimostrata resilienza e la solida capacità di reazione dell’Unione Europea di fronte alle nuove fonti di crisi e incertezza, il pericolo di un’ulteriore involuzione del quadro economico non è remoto. Eppure, nelle ultime settimane, i prezzi di diversi metalli e generi alimentari sono diminuiti, anche a causa del contenimento della domanda mondiale. Il petrolio sta seguendo un percorso analogo, con indicazioni al ribasso, rivelando una sostanziale differenza con gli andamenti degli anni Settanta. Sul potenziale di questi dati – e non solo sulla rappresentazione di una crisi – bisognerebbe riflettere per corroborare le aspettative di imprese e consumatori e rafforzare il governo dei fenomeni in atto. L’Italia, secondo il resoconto della Commissione, ha reagito bene alle avversità e, comunque, dovrebbe realizzare una crescita del 2,9% nel 2022. La perdita del potere di acquisto delle famiglie, la decelerazione dell’attività delle imprese, la persistente stretta negli approvvigionamenti e l’aumento dei costi di finanziamento, però, complicano le prospettive economiche, portando la stima di crescita del Paese nel 2023 allo 0,9%. Nel rapporto congiunturale di luglio, anche Confindustria sottolinea l’esistenza di forze contrastanti, che rendono incerta la dinamica del PIL: da un lato, i rincari di energia e alimentari, la risalita dei tassi di interesse e dello spread sovrano, la debolezza del commercio internazionale; dall’altro, la spinta del turismo, lo sviluppo dell’edilizia, la robustezza dell’industria e il risparmio accumulato a protezione dei consumi. Le proiezioni macroeconomiche dell’analisi trimestrale di Prometeia, poi, forniscono una previsione di crescita per l’Italia del 2,9% nel 2022 e dell’1,9% nel 2023, precisando che si tratta di valutazioni compiute prima delle dimissioni di Mario Draghi. A meno di una rapida soluzione della crisi politica, si paventano un’esasperazione dell’incertezza e un indebolimento del Paese nelle prossime decisive sfide per l’economia. A questo proposito, un editoriale della redazione del Financial Times argomenta come, al cospetto di una rottura avvenuta nel momento peggiore, l’Italia abbia ancora bisogno di Draghi “il più a lungo possibile”. Il problema specifico è la incredibile e autolesionistica accelerazione verso un’instabilità rovinosa, più scriteriata del passato proprio perché incombe la crisi e va affrettata l’attuazione del piano di ripresa, rinsaldando la collocazione dell’Italia nel gruppo di testa europeo. La rinuncia al ruolo di Draghi e a un esecutivo di coesione nazionale sarebbe esiziale e condurrebbe a un grave fallimento, esponendo soprattutto il Mezzogiorno, nel periodo in cui occorre il suo massimo slancio. Nei giorni scorsi, Dani Rodrik ha scritto di un nuovo modello capace di attrarre forze di vario orientamento, spiegando che: “Un nuovo paradigma economico si consolida veramente quando anche i suoi presunti oppositori iniziano a vedere il mondo attraverso la sua lente”. In particolare, egli ha posto in evidenza che la transizione odierna, distante dal neoliberismo, può avere uno sbocco in una forma inedita di “produttivismo”, ponendo l’accento sulla produzione e sugli investimenti, anziché sulla finanza, e puntando “sulle misure dal lato dell’offerta per creare buoni posti di lavoro per tutti”. Questa strategia innovativa richiede un ampio sostegno politico e conferisce ai governi e alla società un compito essenziale per il conseguimento dei suoi obiettivi. Ecco un motivo in più, legato all’apertura di nuove prospettive di sviluppo a livello globale, per non interrompere il cammino intrapreso dal Paese e assicurarsi una continuità di governo nel segno del cambiamento avviato con Mario Draghi.
(articolo già pubblicato dal quotidiano Il Mattino e ripreso con il consenso dell’autore)
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