Giorni fa mi sono imbattuto in un dibatto televisivo e ho ascoltato un intervento di Piero Sansonetti, attuale direttore de “Il Riformista”. Si parlava delle prossime elezioni e del cosiddetto “campo largo”. Riprendendo e commentando un intervento di Pierluigi Bersani, Sansonetti ha detto che la sinistra italiana dovrebbe diventare quel che non è mai stata: radicale e liberale. Una sinistra moderna non può essere moderata e liberale. Nemmeno radicale e non liberale. Ho trovato molto interessante ed eloquente l’affermazione dell’ex condirettore de “L’Unità” ed ex direttore di “Liberazione”, quotidiano di Rifondazione comunista. Mi hanno suggerito una serie di riflessioni che toccano alcuni punti nodali della cultura politica italiana passata e presente.
Anzitutto, quanto asserito da Sansonetti non corrisponde al vero. Una sinistra radicale e liberale c’è stata e c’è. Si chiama Pd. È il partito che incarna il mainstream culturale contemporaneo. Intuisco cosa Sansonetti intenda per “radicale”: qualcosa di simile ad un forte impegno sociale, sui temi del lavoro e dell’economia. Così come per “liberale” intende garantista, chi contesta e contrasta, in nome della separazione dei poteri, l’assoggettamento dell’esecutivo (e legislativo) al giudiziario. Sotto questo profilo, l’affermazione di Sansonetti coglie molto di vero. Ma si fa presto a dire “liberale”, così come “radicale”. E dicendolo si favorisce quella confusione ideologica che contribuisce, e non poco, alla disaffezione dei cittadini nei confronti della politica, soprattutto dei partiti. Perché non usare quel termine che davvero qualificherebbe un’azione politica imperniata sulla lotta alle diseguaglianze, mirata alla loro riduzione, alla difesa del lavoro subordinato, precario o sottopagato? Questo termine è stato però oggetto di controversie accese, anzi di scontri anche violentissimi, nella storia della sinistra italiana. Sto parlando di “socialismo”.
La sinistra del secondo dopoguerra, della cosiddetta Prima Repubblica, è stata rapidamente egemonizzata, sul piano sia elettorale sia culturale, dal Partito comunista (Pci). È vero che dal dicembre del 1963, nascendo il primo governo di centro-sinistra “organico”, il Partito socialista (Psi) è stato lungamente al potere in Italia. È però altrettanto vero che ha sempre subìto, elettoralmente e culturalmente, la pressione di una sinistra comunista che associava a “socialista”, così come “riformista”, epiteti tutt’altro che positivi. Se ti professavi socialista, specie nell’Italia degli anni Settanta e Ottanta, era immediato vedersi liquidati in due modi: traditore della sinistra oppure pseudo-sinistroso, se non cripto-destrorso. O eri stato e non eri più, o non eri mai stato e ti camuffavi, inquinando pericolosamente un termine, socialismo, che poteva essere riscattato se affiancato ed equiparato a comunismo. Quest’ultimo era il solo e vero, autentico, socialismo. Com’è noto, durante la lunga segreteria Craxi del Psi (1976-1993) lo scontro tra comunisti e socialisti raggiunse l’apice. O meglio: tornò alle origini, a quando, nel 1921, i comunisti nacquero a Livorno da una costola dei socialisti, che peraltro rimasero divisi al loro interno, tanto da scindersi poco dopo in altri due tronconi. La moltiplicazione delle sinistre ne causò la debolezza estrema. Fu uno dei fattori che favorì l’ascesa del fascismo, per inciso.
Ebbene, il comunismo sarà anche defunto in Russia e in Europa, ma se ha ottenuto un successo duraturo, che continua post mortem, è l’aver bandito il termine “socialismo” dal normale lessico politico attuale. Almeno in Italia l’operazione è perfettamente riuscita. La damnatio memoriae che s’è abbattuta su Craxi è persino inferiore a quella che grava su qualsiasi professione di fede socialista. Dal 2017, dopo la disastrosa esperienza presidenziale di Holland e l’elezione di Macron, sorto dalle ceneri della tradizione socialista francese abilmente mescolata con quelle di una destra tecnocratica e di una para-gollista, nemmeno la politica francese conosce più un uso convinto e diffuso del termine “socialista”. Mélenchon è “di sinistra”, magari “radicale”. Non liberale, certo.
Che un ottimo giornalista di provenienza comunista, come Sansonetti, parli della necessità per l’Italia attuale di una sinistra radicale e liberale non deve dunque sorprendere. Rivela ancora l’insopprimibile tabù: dirsi socialista. Parola oramai equivoca. In questo si nota un successo ancor maggiore del vincitore del comunismo mondiale, ossia il liberalismo americano, che è individualista e capitalista. Ama il self-made man e il mercato poco o nulla vincolato. L’anticomunismo liberale americano dei tempi della Guerra Fredda era soprattutto avversione al collettivismo e allo Stato. L’ideologia subentrata al comunismo sconfitto si qualifica solo come ciò che sta “a sinistra” del liberalismo capitalista e individualistico. Sempre meno perché lo fronteggia, ma piuttosto perché lo affianca, educandone e abbellendone usi e costumi. Capitalismo sì, ma green. Individualismo sì, ma condito da diritti e solidarietà. Business is business, ma politically correct.
(originariamente pubblicato su “L’Identità” del 9 luglio 2022, p. 12, con il titolo Ossessione liberale e tabù socialista. La nemesi della sinistra post comunista e successivamente su Il pensiero Politico. Viene ripreso con il consenso dell’autore)
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