Céline amava i prigioieri, gli ammalati e gli animali, perché di solito stare dritti e camminare sono una premessa per le peggiori mascalzonate. Guerre (Gallimard, 2022) comincia così, con la bocca semiaperta e l’orecchio sanguinante del fante Ferdinand incollati a terra. È stato colpito da una pallottola tedesca durante una missione ed è così che la guerra – dice nella prima pagina del romanzo – gli è entrata definitivamente nella testa, «dentro di me facevo più rumore di una battaglia». Il racconto continua con la convalescenza di Ferdinand nell’ospedale militare di Peurdu-sur-la-Lys, nelle Fiandre, lunghi periodi a letto intervallati da qualche fuga in città e dal concerto che si porta dentro: «tutti gli ingranaggi, tutte le carni, tutte le idee della terra erano compresse insieme, nel rumore in fondo alla mia testa». La vita di Ferdinand è un quotidiano e faticoso esercizio per mettersi nuovamente in corrispondenza con il mondo.
Ho sentito le campane delle nove e poi c’è stato un colpo di cannone non lontano e poi un altro, e poi niente. Tranne il solito treno di carri che rotolano e poi la cavalleria e l’immane sussurro dei piedi dei fanti che si alza lungo le mura quando passa un battaglione. Un fischio alla stazione. Ho dovuto sistemare tutto nella mia testa prima di poter dormire, ho dovuto aggrapparmi saldamente al cuscino con entrambe le mani, ho teso la mia forza di volontà, ho allontanato l’ansia di non dormire mai più, ho aggregato i miei stessi rumori, tutta la batteria delle mie orecchie, con quelli là fuori e a poco a poco riesco a fare un’ora, due, tre, inconsciamente, come si solleva un peso enorme che lasciamo cadere.
L’esercizio sembra riuscire proprio quando la crisi raggiunge il suo acme, dopo un’inalazione di etere, usato come anestetico, che cancella la differenza tra i rumori di dentro e quelli di fuori, «l’etere ha scatenato un vero e proprio uragano personale, una sorpresa insomma. Sono sprofondato dentro questa orchestra che non ascolterò mai più come nel cuore di una locomotiva. Solo che sentivo benissimo che era il mio cuore che forniva tutta la violenza». È la stessa cosa che dovrebbe fare anche chi scrive, lasciarsi investire dall’uragano fino a diventare l’uragano, abbracciare la confusione del mondo, tutta, senza perderne neanche un pezzetto, perché quando le cose fanno il sabba, dentro il loro tumulto c’è ancora un ritmo da svelare. La scoperta di un ordine nato nel disordine è talmente lontana dalle nostre abitudini che ci fa l’effetto di una pantomima, sembra una fantasticheria, e invece è tutto vero. Davanti allo sguardo di Ferdinand, anche il via vai delle derrate e delle truppe diventa uno spettacolo:
La piazza al centro, tutta circondata da belle case in pietra piuttosto curate come un vero museo. Nel mezzo un mercato di carote, rape, salagioni. Allegro. E poi i camion che facevano tremare ogni cosa, case, mercati, ragazze e reclute di tutte le armi che seguivano i cannoni, sotto le arcate, con le mani in tasca, gracchiavano in piccoli gruppi, vestiti di verde e giallo, gli africani, anche gli indiani, legioni, un’intera flotta di veicoli… Facevano i loro giri sobbalzando, come al circo. Quello era il cuore della città, di là le bombe, le carote e gli uomini partivano in tutte le direzioni.
Il mondo ha cominciato a scendere la china e alla fine resterà soltanto la polvere, ma le cose vengono infilzate sulla pagina un momento prima di incenerirsi, quando si mettono a danzare in cerchio e stanno nella luce radente che gli arriva dall’imminenza del disastro. La verità, dice Céline, è un’agonia che non finisce mai ed è in questo tempo sospeso che si dà a vedere per la prima volta un mondo nuovo, roteante, in cui i corpi pulsano, si disarticolano e si ricompongono: «non sapevo dove fosse l’altro braccio. Era salito in aria molto in alto, ha vorticato nello spazio e poi è sceso per spararmi alla spalla, nella carne cruda». La scrittura insegue il movimento delle cose, che è sempre lì lì per squarciarle.
Mi ero diviso in parti su tutto il corpo. La parte bagnata, la parte che era ubriaca, la parte del braccio che era atroce, la parte dell’orecchio che era abominevole, la parte dell’amicizia per l’inglese che era così consolante, la parte del ginocchio che se ne andava per conto suo, la parte del passato che già cercava, ricordo bene, di aggrapparsi al presente e che non poteva – e poi il futuro che mi spaventava più di tutto, infine una parte divertente, sopra le altre, che voleva raccontarmi un storia.
La parte che racconta una storia è una parte come le altre ma è anche quella che raccoglie i pezzi. Il mondo crolla, ma prima di sparire diventa una cassa di risonanza le cui pareti si rimbalzano l’eco, come quando alla pianola meccanica nel caffè della piazza fanno da contrappunto le esplosioni dei proiettili in cielo.
Viaggio al termine della notte è ancora un libro sugli uomini del sottosuolo e i loro travagli, con Guerre comincia il percorso che porterà Céline a scrivere il più grande romanzo del Novecento, la trilogia del Nord, dominato dalla «tragedia della materia, il baratro del mondo che vi sta supplicando». Lo scrittore è un disgraziato come gli altri, solo che non si tappa le orecchie, ascolta la supplica e cerca di rispondere. Riuscirci è difficilissimo, sono necessarie una veglia e un’attenzione continue. E anche la mente più lucida e volonterosa, se viene superata una certa soglia di intensità, non riconosce più le corrispondenze e si appanna: «quando si mettevano a fare baccano tutti insieme, nel mio orecchio si faceva una specie di silenzio. Rumore su rumore. Soltanto in quei momenti mi sentivo davvero male. Era una lotta troppo grande per la mia testa».
In ospedale Ferdinand è oggetto delle attenzioni di L’Espinasse, un’infermiera assatanata di sesso pronta a spingere la propria passione fino al limite tra la vita e la morte, una specie di Georges Bataille in gonnella, solo che non viene presa troppo sul serio, la sua erotomania scatofila è più che altro comica, Céline non è tra i devoti che vogliono fare la rivoluzione con l’ano. Uno dei vicini di letto è Cascade, che da civile fa il pappone, si è sparato a un piede per non andare al fronte ma l’arrivo di Angèle, una prostituta che è anche sua moglie, gli sarà fatale. È con lui che Ferdinand fa le sue scappate in città, zoppicano tutt’e due e devono sorreggersi a vicenda come le figurine di un quadro espressionista. Altri personaggi vengono illuminati da un flash e poi spariscono, ad esempio lo zuavo Oscar: «durante le tre settimane che l’ho avuto vicino non la smetteva di fare i suoi bisogni nella sonda. Non parlava d’altro. La dissenteria che lo possedeva e una ferita all’intestino. La sua pancia era una cisterna di marmellata. Quando fermentava troppo fuoriusciva dalla sonda sotto il letto. Secondo lui gli faceva bene. Aveva un sorriso per tutti. Sorrisone. Fa bene, diceva ancora, ne aveva fin troppa. Alla fine è morto sorridendo». Oppure il cappellano Présure, ospite della colazione offerta da un assicuratore del luogo in affari con il padre di Ferdinand: «parlava con una soavità femminile. Beveva il caffè come fosse oro. Era sicuro del fatto suo. Si felicitava e mia madre faceva sì con la testa, mio padre uguale. Erano d’accordo su tutto. Un dono del cielo». Dal mondo allegramente in rovina dell’ospedale, Ferdinand è catapultato in un pranzo di benpensanti e benparlanti, i genitori, l’assicuratore, sua moglie, il prete, e capiamo che è da lì che viene il furor di Céline, è soprattutto questo che non sopporta nei suoi simili: quanto ci tengono a parlare bene, purtroppo riuscendoci. Chi parla così, mente sempre. Sa quel tanto che gli basta per credersi al sicuro. Il bersaglio preferito di Ferdinand è il padre, dal quale arrivano «lettere scritte in uno stile perfetto». L’odio di Céline per le menzogne degli alfabetizzati è quasi uguale a quello che gli alfabetizzati hanno avuto per lui. I suoi nemici erano feroci ma non stupidi. Lo accusarono di collaborazionismo ma è la scrittura che non gli perdonavano. I botoli da tribunale glielo fecero pagare caro quel ritmo desultorio fatto di escursioni vertiginose e luminoso come muscoli di ballerina, sinfonica pernacchia fatta a un’umanità che vuole soltanto parlarsi addosso e ama le cosucce ben fatte.
Scritto nel 1934, dopo il Viaggio e prima di Morte a credito, Guerre fa parte dei seimila fogli che nell’estate del 1944 uomini della Resistenza trafugarono dall’appartamento di Céline a Montmartre. In quelle pagine c’è anche Londres – racconta il soggiorno di Ferdinand in Inghilterra, dove si trasferisce alla fine di Guerre –, la leggenda medievale La Volonté du roi Krogold, i capitoli mancanti di Casse-pipe e tante lettere: agli editori, alle amiche, a Robert Brasillach. I manoscritti sono rimasti sconosciuti a tutti fino al 2005 quando l’ignoto ladro o chi per lui li consegnò a un giornalista di Libération con la richiesta di renderli pubblici soltanto dopo la morte di Lucette Destouches, avvenuta due anni fa (non bisogna far ingrassare con i diritti d’autore la vedova di un fascista). Adesso nella galleria Gallimard di Parigi c’è una mostra sui manoscritti ritrovati e qualcuno propone di dare a Guerre il premio Goncourt che fu negato al Viaggio. Un risarcimento irritante. Quando si è fatto un danno, è vigliacco volerci mettere una pezza. È più onorevole ammettere che ci si è comportanti da fessi oppure da manigoldi e dedicarsi ad altro. I francesi hanno sbagliato ad angariare Céline nel dopoguerra, sbaglierebbero ora a imbalsamarlo a spese dello stato e delle camorre letterarie, perché la verità è davvero imperdonabile e la pantheonizzazione è un modo di continuare la persecuzione con altri mezzi. Dopo che Guerre è schizzato in vetta alle classifiche – 31.567 copie vendute la prima settimana – il pericolo è di trovare prossimamente in qualche fiera del libro un’edizione filologica di Bagatelle per un massacro con le istruzioni per l’uso, la creazione di una casa-museo a Meudon e infine ricevere una lettera con il volto di Céline che ci guarda sbigottito dal francobollo.
Tommaso Tuppini insegna Filosofia teoretica all’Università di Verona. E’ molto devoto ai Greci e al genio di Lucrezio, oltre che a Kant, Nietzsche, Heidegger e Deleuze. Ha pubblicato Ebbrezza (insieme a Jean-Luc Nancy, 2014), La caduta. Fascismo e macchina da guerra (2019) e Vortici, forme dell’esperienza (2020).
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