Il focalizzarsi dell’attenzione sull’aggressione russa contro l‘Ucraina ha fatto passare in secondo piano la rinnovata aggressività cinese nei confronti di Taiwan che, negli ultimi mesi, si è espressa, in particolare, con il provocatorio e ripetuto sorvolo dell’isola da parte di squadriglie di aerei militari.
Secondo la dottrina ufficiale cinese Taiwan è una “provincia ribelle”, che di diritto appartiene alla Cina e che ad essa dovrà, prima o poi, ritornare. Ma questa dottrina ha un fondamento storico e giuridico? In realtà Taiwan ha avuto negli ultimi 130 anni una storia del tutto separata da quella della Cina continentale e negli ultimi 70 anni questa separatezza si è trasformata in contrapposizione.
Con il trattato di Shimonoseki (1895), che concluse una breve guerra cino-giapponese, l’isola passò sotto la sovranità giapponese e tale rimase fino alla fine della II guerra mondiale. La conclusione del conflitto segnò, senza soluzione di continuità, l’inizio della guerra civile in Cina che portò nel giro di pochi anni l’esercito comunista guidato da Mao Zedong a conquistare tutto il Paese, con l’eccezione, appunto, di Taiwan dove riparò quello che era rimasto dell’esercito nazionalista guidato da Chiang Kai-scek. La proclamazione della Repubblica Popolare Cinese il 1° ottobre 1949 non interessò Taiwan, che sostenne di essere la legittima rappresentante di tutto il popolo cinese, affermazione sostenuta dal fatto che ad essa non solo spettava il seggio all’ONU ma addirittura quello nel Consiglio di Sicurezza.
Questa paradossale situazione ebbe termine nel 1971 quando il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon capovolse la politica americana riconoscendo la Repubblica Popolare Cinese come legittima rappresentante del popolo cinese e adottando verso Taiwan una politica che in seguito fu definita dell’”ambiguità”. Pur riconoscendo nel governo di Pechino la rappresentanza dell’intera Cina, gli Stati Uniti si impegnavano a impedire una conquista dell’isola con la forza.
Il passare dei decenni – segnati tra l’altro dalla morte nel 1975 di Chiang Kai-shek – modificò lentamente ma in profondità le caratteristiche di Taiwan, differenziandola sempre più dalla Cina continentale. Taiwan non conobbe quindi tutte le convulsioni che segnarono la Cina ai tempi di Mao e dei suoi successori, in particolare la rivoluzione culturale e il suo superamento.
Dal punto di vista economico Taiwan conobbe nel tempo uno sviluppo sempre più accelerato che la pose tra i Paesi asiatici più prosperi, con una particolare specializzazione nel campo dell’alta tecnologia. A questi cambiamenti economici corrispose un netto cambiamento politico: un nuovo partito – il Partito Democratico Progressista – si contrappose al vecchio Kuomintang erodendone progressivamente il consenso. Alla vecchia teoria che voleva Taiwan rappresentante dell’intera Cina, il nuovo partito contrappose l’opzione indipendentista: la profonda differenziazione economica, sociale, politica, culturale con la Cina continentale giustificavano ormai la separazione da quella tradizione di cui d’altra parte non faceva più parte da tempo. Il nuovo partito guadagnò rapidamente il consenso della maggioranza dei taiwanesi e detiene ormai saldamente la guida del Paese.
La posizione della Repubblica Popolare Cinese nei confronti del nuovo corso può sembrare paradossale ma in realtà non lo è: il governo di Pechino vede con maggior favore il vecchio Kuomintang contro cui aveva combattuto un’aspra guerra civile ma che continua a essere assertore dell’unità della Cina – rispetto al nuovo partito indipendentista, che, viceversa, vuol troncare ogni rapporto con l’antica madrepatria.
In realtà la grande maggioranza della popolazione taiwanese rifiuta con energia ogni assorbimento da parte della Repubblica Popolare Cinese. Quello che è avvenuto a Hong Kong – che pure si trovava in una situazione giuridica assai diversa da quella di Taiwan – ha rafforzato questa spinta alla separatezza.
Le vicende degli ultimi 50 anni hanno fatto guardare alla scelta compiuta da Nixon nel 1971 – e condivisa da tutti i Paesi occidentali – con occhi ben più critici rispetto al passato. Gli Stati Uniti accettarono tutte le condizioni poste dalla Repubblica Popolare Cinese e in particolare quella che vietava ogni rapporto con Taiwan. In realtà da allora tutti i Paesi occidentali hanno una rappresentanza commerciale a Taipei che di fatto svolge le stesse funzioni di un’ambasciata ma non può averne lo status.
Con quello che ormai non può essere che il senno di poi, era probabilmente possibile nel 1971 negoziare con il governo cinese una soluzione meno drastica di quella che fu poi adottata. Alla fine i nodi sono venuti al pettine e adesso gli Stati Uniti – bon gré mal gré – non possono accettare una soluzione di forza del problema di Taiwan come vorrebbe il governo di Pechino.
(articolo già pubblicato in “Pagine Ebraiche – Moked” – ripreso con il consenso dell’autore)
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