Cgil Cisl e Uil chiedono a gran voce al Governo una riduzione del “cuneo”, cioè del prelievo fiscale e contributivo sulle buste-paga; e fanno bene, perché il “cuneo” italiano penalizza i salari più di quanto accada negli altri maggiori Paesi europei. Le stesse confederazioni sindacali dovrebbero però interrogarsi anche su quanto potrebbero fare esse stesse con i propri mezzi, e non fanno, per favorire l’aumento dei redditi di lavoro. In questi giorni un rapporto dell’OCDE ha messo in evidenza che le retribuzioni medie italiane negli ultimi 30 anni non soltanto sono cresciute molto meno rispetto agli altri maggiori Paesi europei, ma non sono riuscite neppure a tener dietro al modestissimo aumento della produttività media del lavoro che si è registrato nel nostro Paese. Forse è il caso di chiedersi che cosa abbia funzionato male nel sistema della contrattazione collettiva.
Ancora oggi il pilastro fondamentale del nostro sistema di determinazione degli standard retributivi è il contratto collettivo nazionale di settore. Dieci anni fa si è fatto un tentativo di spostare il baricentro del sistema verso la periferia, con un accordo interconfederale che ha potenziato la contrattazione aziendale; ma di fatto non è andata così: due terzi del tessuto produttivo sono rimasti privi di contrattazione al livello aziendale col risultato che il punto di riferimento principale per la determinazione delle retribuzioni è rimasto per lo più il contratto nazionale. Il quale, tra l’altro, ha un grosso difetto: stabilisce una sola tabella dei minimi salariali per tutto il Paese, nonostante i forti squilibri tra le regioni del Nord e quelle del Sud. La retribuzione contrattuale è la stessa per tutto il territorio nazionale, nonostante che a Milano o a Bologna il costo della vita sia nettamente maggiore e la produttività media del lavoro nettamente più alta che a Enna o a Crotone. Col risultato che al Nord lo standard retributivo è più basso di quello che potrebbe essere, mentre appare troppo alto in molte situazioni al Sud, dove viene diffusamente eluso.
Il contratto collettivo nazionale potrebbe migliorare la propria efficacia se incominciasse a stabilire i minimi salariali in termini di potere d’acquisto effettivo, cioè tenendo conto delle differenze di costo della vita tra le regioni o le province. Ma nella nostra cultura sindacale vige un tabù che vieta di battere questa strada. Così, nel Centro-Nord il cosiddetto minimo tabellare morde poco, la sua dinamica non riesce a tener dietro a quella degli aumenti di produttività nelle aziende più dinamiche, mentre al Sud lo stesso minimo tabellare è di fatto disapplicato in metà dei casi.
L’apertura da parte di Cgil Cisl e Uil di una riflessione aperta, senza pregiudiziali, su questo problema sarebbe doverosa nei confronti della grande platea dei loro rappresentati, che sono in larga parte penalizzati da una paralisi delle retribuzioni peggiore persino rispetto alla pur preoccupante stagnazione della produttività media del lavoro. Questa riflessione dovrebbe portare innanzitutto a una forte iniziativa per l’estensione della contrattazione “di secondo livello”, aziendale o territoriale: potrebbe essere il contratto nazionale stesso a prevedere un meccanismo di collegamento delle retribuzioni agli aumenti di produttività, applicabile “per default” fino a che non sia intervenuto un contratto aziendale a disciplinare la materia; e lo Stato potrebbe fare la sua parte detassando gli aumenti retributivi collegati alla produttività contrattati in ciascuna azienda. Ma la stessa riflessione dovrebbe estendersi anche al problema delle differenze regionali di costo della vita e di produttività media del lavoro; non affrontarlo, come si è visto, finisce inevitabilmente coll’azzoppare la contrattazione collettiva.
Affrontare il problema degli squilibri regionali sarà, del resto, indispensabile anche al Governo, che sembra finalmente intenzionato a istituire uno standard retributivo minimo universale, sulla scia della nuova direttiva che la UE sta emanando su questa materia: anche un salario orario minimo di fonte legislativa o amministrativa che non tenesse conto almeno delle differenze di costo della vita fra Nord e Sud sarebbe inevitabilmente troppo basso per il Nord o troppo alto per il Sud.
(articolo ripreso con il consenso dell’autore dal sito www.pietroichino.it e già pubblicato sulla Gazzetta di Parma il 12 giugno 2022)
.
Lascia un commento