Il 30 Aprile arrivarono, all’improvviso, i dati Istat che offrivano finalmente dei segnali in apparenza incoraggianti. Sembrarono, d’acchito, una sorta di scialuppa di salvataggio per il Governo “del cambiamento”, che già stava riflettendo il mancato “anno magnifico”, cit. Giuseppe Conte e la mancata “abolizione della povertà per decreto”, cit. Di Maio. Cosa diceva l’Istat? Che l’Italia è fuori dalla recessione, dopo due trimestri di calo, anche se con una crescita davvero modesta: nel primo trimestre dell’anno il Pil italiano (corretto per giorni lavorativi) è cresciuto dello 0,2%, rispetto ai tre mesi precedenti. Ciò rappresenta l’uscita dalla recessione tecnica, che si era concretizzata con due cali consecutivi del prodotto interno lordo registrati negli ultimi due trimestri del 2018, entrambi chiusi a -0,1%. Secondo i dati della prima stima flash dell’Istat, su base tendenziale, cioè nel confronto con il primo trimestre 2018, la crescita è stata dello 0,1%. Tanto è bastato al Governo per festeggiare e rilasciare dichiarazioni trionfalistiche. Invece da festeggiare purtroppo c’è ben poco. E poco consola che ci sia un rallentamento in tutta l’Eurozona. Il divario di crescita tra l’Europa e l’Italia nel corso dei Governi di Centrosinistra era dello 0,7 e oggi dell’1,1. In una parola il divario con gli altri aumenta. E Luigi Marattin, capogruppo Pd in Commissione bilancio alla Camera, contesta anche i trionfalismi sul dato dell’occupazione: “A marzo 2019, rispetto a prima del giuramento del governo Conte (maggio 2018) in Italia ci sono 35 mila occupati in meno, di cui 19 mila a tempo indeterminato”, scrive su Twitter. Del resto la stessa Istat, avverte che; “ad aprile, il clima di fiducia dei consumatori è diminuito per il terzo mese consecutivo. Tutte le componenti sono dunque risultate in peggioramento, anche se: “l’indicatore anticipatore ha registrato una flessione meno marcata rispetto ai mesi precedenti, prospettando un possibile miglioramento dei ritmi produttivi”. E l’indice di fiducia delle imprese “continua fornire segnali altalenanti: ad aprile si è nuovamente ridotto dopo l’aumento di marzo”. Per l’Istat la “flessione dell’indice composito del clima di fiducia delle imprese è risultata diffusa tra i settori economici con un miglioramento solo per le imprese delle costruzioni” e che nel settore manifatturiero “per il quale l’indice ha segnato il calo più lieve, sono peggiorati i giudizi sul livello degli ordini e sulle attese sulla produzione, con una diminuzione del saldo relativo alle scorte di magazzino”. Sorprende che tutti i telegiornali e i vari talk show non siano stati capaci di dar voce alla realtà: in questo modo sarà molto brusco il risveglio degli italiani. Infatti sono di questi giorni i dati provenienti dall’Ue, che raffreddano i facili entusiasmi: l’Italia è ferma come nessun altro. Non cresce più. Non lo farà quest’anno, lo farà forse timidamente il prossimo anno, se tutto va bene e il contesto internazionale non si deteriorerà ulteriormente. Nel frattempo il Paese rimane ultimo nella classifica europea della crescita per il 2019 e il 2020, confermando la non invidiabile performance già registrata lo scorso anno, in particolare nel secondo semestre, proprio in coincidenza con l’insediamento del nuovo Governo. Rispetto al 2018, però, le cose peggiorano perché aumenteranno deficit e debito, invece di essere ridotti. Le tradizionali previsioni economiche di primavera della Commissione europea suonano da campanello d’allarme per Ue ed Eurozona, e da bocciatura per l’Italia. Secondo l’Ue: “La crescita sommessa e l’allentamento di bilancio intaccheranno i conti pubblici, con deficit e debito che saliranno fortemente”. Nella nuova stima il deficit sale a 2,5% nel 2019 e 3,5% nel 2020 (stima che non comprende l’attivazione delle clausole di salvaguardia, cioè l’aumento dell’Iva). Mentre il debito schizza a 133,7% quest’anno e 135,2% il prossimo. In autunno la stima era di 131% e 131,1%. E non finisce qui. Con un Pil ancor più in caduta, lo spread che s’impenna, il rincaro dei mutui, le esportazioni che flettono, la contrazione degli investimenti delle multinazionali dall’estero e una manovra d’autunno sicuramente più difficile da realizzare senza azzoppare ancora di più l’economia, il risultato è che il conto dell’Italia potrebbe ammontare a “93 miliardi in due anni” come titola allarmata la Repubblica. Al quadro sopra descritto va aggiunta anche “la guerra dei dazi” di Trump che ora rischia di diventare “uno shock, al pari di Brexit e crisi greca”. Comunque in grado di mettere in ginocchio l’Italia. Infatti i “super dazi” statunitensi hanno finito con lo spaventare le Borse, terremotandole, da Milano a Shanghai, con perdite pesanti. Il quotidiano diretto da Carlo Verdelli fa un po’ di conti e alla fin fine l’imbuto dei conti si scarica sui “mutui e credito al consumo”, con questo risultato: “Il rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato ha fatto aumentare i mutui a tasso fisso, dal settembre scorso, di mezzo punto percentuale: se lo spread, ad esempio, aumentasse di altri 50 punti i mutui a tasso fisso subirebbero un aumento complessivo di 3,5-4 miliardi”. Al quotidiano di Largo Fochetti, l’economista Carlo Cottarelli prefigura per l’Italia il rischio di una nuova recessione che in molti non riescono a comprendere: ad esempio la minaccia di Trump sui dazi “rappresenta un rischio di attacco speculativo” in quanto “qualsivoglia fattore di indebolimento del ciclo economico mondiale, tipo il rallentamento della crescita americana, farebbe tornare il nostro Paese in recessione, in particolare considerando la fase nella quale ci troviamo proprio adesso: i dati statistici mostrano che sono solo le esportazioni a trainare la nostra economia, mentre la domanda interna è modesta. Dunque una eventuale guerra commerciale sarebbe per noi davvero pesante”. E purtroppo non possiamo certo sperare che le cose possano cambiare con i provvedimenti simbolo del Governo pentaleghista, che per sua stessa ammissione influirà dello 0% sul Pil con quota cento e dello 0,2% con il Reddito di Cittadinanza. E poco consola che dopo tante promesse non mantenute, la Lega porti avanti il “mantra” della Flat Tax, ovvero meno tasse per i ricchi (il Ministro delle Finanze, Tria, ha già precisato che non ci sono le condizioni per applicarla) ed i pentastellati quello del salario minimo garantito, che già ha incassato il “no” dei sindacati, i quali chiedono invece che i salari, insieme ai diritti, siano stabiliti con i contratti nazionali di lavoro. Nel frattempo qualcuno che fa meglio i conti ricorda che nel semestre giugno-dicembre 2018 (mesi del Governo Conte) il Pil è passato dal 1,7 a -0,1, con un arretramento, dunque, di 1,8 punti. E che sono miseramente tramontati i numeri previsionali del Governo che in origine erano del 3%, diventato 1,5 in Legge di Bilancio. La cosa più paradossale è che nei talk show spiegano i magri risultati economici del Bel Paese siano dovuti alla congiuntura internazionale, senza raccontarci che il dato che ci tiene in lieve linea di galleggiamento sia proprio l’Export, mentre la domanda interna langue. Intanto, conviene prepararci all’aumento dell’Iva, dopo le Europee, quando daranno la colpa a qualcuno diverso da loro, per farla ingoiare agli italiani. L’emergenza informazione è un altro punto critico e purtroppo per tutti noi, i numeri hanno la testa dura e non si cambiano con le chiacchiere. E comunque nell’era che viviamo per fortuna nessuno può fermare le voci libere come questa.
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