La nuova vittoria di Emmanuel Macron ha fatto tirare un sospiro di sollievo a molti in Europa e nel mondo. In Italia c’è anche chi si è interrogato sulla possibilità di dare rappresentanza agli elettori di centro e a posizioni liberal-democratiche che, secondo molti, il presidente francese e il suo movimento rappresenterebbero. Ma il “nuovo” sistema partitico francese è davvero così stabile da poter rappresentare un modello per altri paesi? Difficile a dirsi. È il problema delle fasi di transizioni. E in questo caso dei sistema politico-istituzionale.
Quella che la Francia sta vivendo è infatti una fase di transizione cominciata nel 2017, quando l’elezione di Macron aveva spezzato in maniera brutale l’egemonia del sistema bipolare che aveva caratterizzato il paese dalla fine degli anni Settanta alle elezioni del 2012. Se nel 2017 erano saltati i socialisti, nelle elezioni del 2022 è stato il turno del centrodestra postgollista. Oggi quindi esistono essenzialmente tre poli, due anti-sistema e uno nato fuori dal sistema o percepito inizialmente come tale: quello di sinistra, egemonizzato almeno per il momento da Jean-Luc Mélenchon; quello dell’estrema destra di Marine Le Pen; quello di centro, guidato da Macron. A questi, forse, bisogna aggiungere probabilmente anche un polo minore di centrodestra/destra, in grave difficoltà e la cui sopravvivenza dipenderà dalle legislative.
Questa tripartizione potrebbe strutturare il futuro sistema partitico? Probabilmente non basteranno le elezioni legislative di giugno per capirlo. La presa stessa che Mélenchon ha attualmente sull’alleanza di sinistra – a cui partecipano anche verdi e socialisti, piegati alla linea di disobbedienza europea proposta dal leader della sinistra populista – può darsi che non sia duratura. Il movimento del presidente Macron dal canto suo non è strutturato: al di là delle elezioni nazionali ed europee, dove la personalità del presidente è al centro della lotta politica, il partito-movimento fatica a radicarsi a livello locale. E il presidente in Francia ha il vincolo dei due mandati consecutivi. Nel 2027 quindi Macron non potrà ricandidarsi e, anche se molto giovane alla fine del suo secondo mandato, non c’è una tradizione di partecipazione attiva degli ex presidenti alla vita politica, dopo i due mandati presidenziali (dopo un solo mandato, però, esiste: Giscard, Sarkozy e Hollande hanno tutti e tre in maniera diversa cercato di pesare nella vita politica dei rispettivi partiti).
Durante il nuovo mandato di Macron assisteremo quindi a nuovi rimescolamenti di carte, alla ricerca di una nuova stabilità del sistema partitico. Il partito del presidente sopravvivrà a questi cinque anni? L’erede, l’ex primo ministro Eduard Phillppe, viene dalla destra repubblicana e potrebbe concludere il percorso che ha visto il partito di Macron passare da posizioni social-liberali a posizioni più conservatrici nel campo dell’immigrazione, quasi abbandonando il timido liberalismo economico dell’avventura elettorale del 2017 per un ritorno allo statalismo che caratterizza tradizionalmente la destra e la sinistra francesi, in un paese dove il termine libéral appare come un insulto per quasi tutto lo spettro politico francese.
Senza Macron, inoltre, molti dei voti di centrosinistra – ex socialisti soprattutto – che hanno supportato e supportano il presidente potrebbero ritornare liberi. Ed è la ragione per la quale una parte degli esponenti socialisti – i famosi “elefanti” del partito – sono contrari all’accordo elettorale con Mélenchon, stipulato dai “giovani” del partito, nel tentativo di salvaguardare deputati e i conseguenti finanziamenti. A quest’elettorato, pensano gli “elefanti” e i critici dell’accordo con Mélenchon, tra cinque anni si dovrà dare rappresentanza.
Se aggiungiamo inoltre che, secondo un sondaggio di Opinion Way, la metà dei voti per Mélenchon e un terzo dei voti per Macron e Le Pen sono stati voti utili, non legati cioè alle preferenze politiche personali (al contrario dei candidati piccoli che hanno ottenuto i voti di persone ideologicamente persuase dai candidati), abbiamo il quadro della volatilità dell’elettorato e della fase di transizione a cui assistiamo. A quale forma di stabilità si possa arrivare, è davvero difficile a dirsi. Ma una tale instabilità difficilmente può essere presa a modello.
E poi entra in gioco il fattore istituzionale.
Il semi-presidenzialismo è stato infatti spesso oggetto di dibattito in Francia, sin da quando Charles De Gaulle sottopose a referendum il progetto di costituzione che avrebbe dato vita alla Quinta Repubblica. Per lungo tempo la sinistra considerò il nuovo assetto istituzionale come il risultato di un colpo di stato del generale. Salvo poi cambiare idea, quando uno dei principali critici e avversari di De Gaulle negli anni Sessanta – François Mitterrand – giunse al potere nel 1981.
Ora, il regime semi-presidenziale ha sempre favorito una certa personalizzazione della battaglia politica. Le vicende politico-elettorali dei vari presidenti e candidati presidenti possono essere lette anche – e soprattutto – come il racconto delle ambizioni personali per arrivare al vertice del paese. François Mitterrand, con una storia politica a destra, diventa il primo presidente della sinistra francese, l’apice di una carriera politica ambigua della quale si fatica a comprendere quale sia il confine tra il desiderio di trasformazione del contesto politico – per esempio, con la fondazione del PS – e l’ambizione personale. Uno discorso simile potrebbe farsi per Jacques Chirac e i suoi primi passi in politica con il Partito comunista francese per poi piegarsi a nuove “opportunità” politiche che la famiglia della cattolicissima moglie gli offrì. L’opportunismo politico è stato un motore di particolare successo nella politica francese.
La storia delle presidenziali è quindi una lotta politica personale e estremamente focalizzata sulla stessa personalità del leader di turno.
La personalizzazione è aumentata nel 2000 con l’introduzione del mandato di cinque anni per il presidente e la successiva decisione di posporre le elezioni legislative alle elezioni presidenziali, per voler assicurare al candidato vincente delle elezioni presidenziali la maggioranza necessaria per realizzare il proprio mandato. I presidenti sono diventati i veri leader della maggioranza parlamentare, con i primi ministri ridotti al rango di “collaboratori”, come Nicolas Sarkozy definì il suo primo ministro François Fillon.
È un sistema che solleva molte questioni in termini di contro-poteri, in uno stato fortemente centralizzato. Soprattutto in presenza di partiti politici “quasi” nuovi e, in ogni caso, fortemente dipendenti dalla leadership dei loro fondatori (Macron, Le Pen e Mélenchon), il semi-presidenzialismo attuale francese favorisce partiti movimenti che non sembrano in grado di strutturare in maniera stabile il sistema politico e partitico del paese.
L’evoluzione del sistema istituzionale francese e l’estrema personalizzazione rendono difficile pertanto comprendere quale potrebbe essere l’esito del terremoto politico del 2017. Trovare elementi di stabilità che consentano di trarre lezioni utili alla politica italiana è quindi molto complicato.
Tuttavia, si possono considerare alcuni aspetti legati all’elettorato francese. Nonostante sia spesso stato considerato come un elettorato estremamente polarizzato lungo l’asse destra-sinistra, la realtà è oggi un po’ cambiata. La dimensione destra-sinistra rimane comunque importante nel paese ma non è più dominante come in passato. Permane anche una certa narrazione politica di destra e di sinistra, che molto spesso si appoggia a retoriche da anni Settanta (e non è un giudizio di valore sulle posizioni degli anni Settanta, quanto sul fatto che si utilizzano le stesse chiavi d’interpretazione cinquant’anni dopo, quando il mondo è cambiato così profondamente). Si pensi ad esempio al “La finanza è il mio nemico”, frase che Hollande pronunciò nel 2012 nel lancio della sua campagna elettorale.
Una delle indagini che forniscono indicazioni rispetto all’auto-posizionamento dei francesi lungo l’asse destra-sinistra, nel 2020 indicava che quasi quattro francesi su dieci (il 39 per cento) si collocasse a destra, solo il 13 per cento si collocasse a sinistra, mentre il 32 per cento si dichiarasse di centro. Il 16 per cento non si collocava sull’asse sinistra-destra. L’auto-collocazione ideologica però non necessariamente dice qualcosa sui valori. E su questo punto, rispetto all’idea di uno spostamento a destra del paese in termini elettorali, le ricerche delle European Values Study mostra un aumento dei valori di tolleranza e uguaglianza in Francia.
Bruno Cautrès, uno dei principali politologi francesi e uno degli autori della ricerca, non pensa vi sia una contraddizione: la società, dice, sta diventando più permissiva, meno conservatrice, ad esempio per quanto riguarda i diritti civili, e l’attaccamento alla giustizia sociale – tradizionalmente un valore di sinistra – è ancora presente, ed è persino diventato più importante su alcuni aspetti, come la riduzione delle grandi differenze di reddito. Aggiunge Cautrès che là dove interviene il posizionamento ideologico è sulle politiche per realizzare quei valori.
Se consideriamo coloro che non si identificano politicamente con la destra, il centro o la sinistra, molti di questi elettori propendono per il non voto o la scheda bianca. Spesso sono meno interessati spesso perché ritengono che il risultato delle elezioni presidenziali non contribuirà a migliorare o peggiorare le loro vite. Ma da una ricerca Fondapol sappiamo che, anche se la loro disponibilità a votare per i candidati è inferiore alla media nazionale, quando votano, possono votare Le Pen, Mélenchon o Macron in egual misura. Non sono voti acquisiti a un partito politico su base ideologica.
(il resto dell’articolo è possibile leggerlo su www.luminosigiorni.it)
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