Ci sono riforme che tengono banco a lungo. Sono terreno ad alta e “rumorosa” conflittualità politica e ideologica. Sovente, la loro conclusione tarda ad arrivare. Talora, addirittura non arriva. Anche l’attualità ne offre esempi: riforma della Giustizia, del Consiglio Superiore della Magistratura, del Codice degli Appalti, del Fisco, e via discorrendo.
Altre riforme avvengono, invece, rapidamente e in sordina. I mezzi d’informazione di massa, per lo più, le ignorano. Apparentemente, la politica non sembra interessata ai temi che trattano (ma, sotto sotto, l’interesse c’è ed è unanime quando la riforma riguarda soggetti particolari, come nell’argomento in esame). È il caso della riforma dell’azionariato della Banca d’Italia. Tre commi (715,716,717) dell’art. 1 della legge 234/2021 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022 e bilancio pluriennale per il triennio 2022-2014) ne ripropongono un nuovo atto. Viene, ulteriormente, riformata la partecipazione degli azionisti al capitale sociale della Banca d’Italia.
Qualche nota introduttiva. Per legge, la Banca d’Italia è un istituto di diritto pubblico. Svolge la funzione di banca centrale della Repubblica italiana, ed è parte integrante del Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC). Gode di indipendenza nell’esercizio dei suoi poteri e nella gestione delle sue finanze.
Il capitale sociale della Banca d’Italia ― rimasto immutato dal 1936 in 300 milioni di lire (156 mila euro circa) ― è stato elevato, dal decreto-legge 133/2013 (Disposizioni urgenti concernenti l’IMU, l’alienazione di immobili pubblici e la Banca d’Italia), a 7,5 miliardi di euro. È composto da 300 mila quote nominative di partecipazione del valore di 25.000 euro ciascuna.
Azionisti della Banca d’Italia possono essere soltanto i soggetti individuati dalla legge. Cioè: banche e imprese di assicurazione italiane, fondazioni bancarie, enti e istituti di previdenza e assicurazione con sede legale in Italia e fondi pensione.
La legge 5/2014 ― di conversione del decreto-legge 133/2013 ― aveva stabilito che ciascun azionista non potesse possedere, direttamente o indirettamente, una quota del capitale superiore al 3 per cento. La legge 234/2021 ha elevato questa quota al 5 per cento. Le quote del capitale che gli azionisti possono possedere passano dunque da 9 mila a 15 mila. Per le quote possedute in eccesso, non spetta il diritto di voto ed ogni altro diritto economico e patrimoniale, cioè il dividendo. Attualmente, partecipano al capitale sociale della Banca d’Italia 179 enti: 103 banche, 10 assicurazioni, 14 enti previdenziali, 10 fondi pensione e 42 fondazioni bancarie, per il totale delle 300 mila quote (Banca d’Italia – Partecipanti al Capitale (bancaditalia.it).
In materia di distribuzione degli utili agli azionisti, lo Statuto della Banca d’Italia (DPR 15.02.2016) ― recependo il dettato del decreto-legge 133/2013 ― stabilisce che ai partecipanti possono essere distribuiti dividendi annuali, a valere sull’utile netto di bilancio, per un importo non superiore al 6 per cento del capitale sociale. La somma restante ― oltre che alle riserve di legge ― spetta allo Stato.
I bilanci della Banca d’Italia si chiudono, di norma, con utili interessanti. Il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha comunicato, ad esempio, che l’utile netto del 2021 è stato di 5,9 miliardi e che ai partecipanti va un dividendo invariato di 340 milioni (lo Stato incassa una cedola di 5,5 miliardi). Per il 2020, l’utile era stato di 6,3 miliardi. Il dividendo da pagare ad ogni partecipante tiene conto, ovviamente, del numero di quote possedute.
La legge 234/2021 ha stabilito che l’elevazione delle quote ha effetto dal 1° gennaio 2022. Ciò spiega come siano aumentati i partecipanti e quelli già presenti nell’azionariato abbiano arrotondato le loro partecipazioni considerandole un investimento redditizio. Per i nuovi azionisti, ci saranno dividendi commisurati al numero di quote acquisite. Gli azionisti già in possesso di quote, aumentandole otterranno dividendi superiori ai precedenti. Si stima, infatti, che il rendimento delle somme investite nel capitale della Banca d’Italia si aggiri intorno ad un 4,5% annuo costante, sicuro e superiore al rendimento di altri investimenti similari.
L’insieme di questi fatti può spiegare come riforme quale quella in esame si perfezionino rapidamente e in sordina. Buona parte o tutta la politica è presente ― forsanche indirettamente ― in banche, assicurazioni, casse previdenziali professionali, fondazioni bancarie. La legge afferma ― come s’è detto ― l’indipendenza della Banca d’Italia. Tuttavia non si può escludere che, attraverso i soci, la politica possa influenzare le decisioni dell’Istituto. Dunque, qualsiasi riforma che porti vantaggi a questi soggetti va assecondata. Chissà mai che, da questi vantaggi, possano discendere benefici, diretti o indiretti, anche per la politica: prestiti agevolati, contributi, qualche salvataggio di banche o enti in difficoltà ― che però interessano i politici del luogo ―, e altri interventi simili.
Certo è che, considerando queste riforme e i soggetti coinvolti, non si può nascondere come alcune zone dell’economia pubblico/privata restino fumose. Quanto meno, non facilmente comprensibili dal cittadino. Sono troppi gli intrecci che occorrerebbe conoscere.
Lascia un commento