Indizi terrestri
Così, nella vita, tra fatiche quotidiane
e amori di una notte, scorderai l’amica
coraggiosa, il suono
dei suoi fraterni versi.
L’amaro dono della sua durezza,
la timidezza, maschera del fuoco,
e quello spasmo, scossa senza fili,
che ha il nome di: lontano!
Tutto l’antico tranne – «dammi!», «mio!»,
tutte le gelosie – non la terrena,
tutte le fedeltà – ma anche all’estremo
scontro – sempre incredula Tommaso…
Sii prudente, mio tenero, ti imploro:
non dare asilo alla fuggiasca –
l’anima! Viva la virile intesa
delle amazzoni, limpida congiura!
Ma forse, tra cinguettii e conteggi,
sfinito dal fatale eterno
femminino, ti tornerà alla mente
la mano mia senza diritti.
Le labbra – senza preventivi.
Le braccia – senza pretese.
Gli occhi – senza palpebre,
protesi – nel vivo!
Forse non esiste dai tempi di Lucrezio una poesia tanto severa quanto quella della poetessa russa Marina Cvetaeva. Leggiamo in questo testo del 1922 lo squadernarsi di un dialogo che non ha un vero e proprio interlocutore, che si incardina su una tensione duale paradossale, per cui è la stessa performance lirica a produrre la consistenza creaturale del ‘tu’, dell’’altro’. Un altro che era già lì, prima di ogni parola, prima dell’espressione.
Della Cvetaeva è famoso l’adagio per cui «tutti i poeti sono ebrei». Con ciò la poetessa intende almeno tre cose: che tutti i poeti sono erranti, che tutti i poeti sono esiliati, che tutti i poeti sono sradicati dalla loro propria identità (non hanno un ‘proprio’ isolabile, solo una problematica e costitutiva apertura all’altro, visto con occhi senza palpebre). Si può dire forse che ciò che vale consaputamente per il poeta, vale anche inconsapevolmente per altri. Per tutti.
In questi tempi – e che tempi mai sono questi! – in cui una briciola di sapere confuso legittima la sicumera di molti, forse servirà – certo inservilmente – la parola impietosa della Cvetaeva, a ricordare a qualche energumeno tascabile dispensatore del proprio onnisapere insapore che egli non è qui, che egli non è importante per nessuno e, infine, che egli non è niente. In sintesi, che egli, come tutti, è ebreo, ciò che i poeti sanno e che egli ignora.
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