Tel Aviv è l’esempio più noto della strenua tensione di Israele verso l’essere un Paese normale, anzi di più: la sua grammatica, specialmente nella zona dell’attacco terroristico a Dizengoff, il centro pieno di ristoranti, pizzerie, negozi, è quello liberale e democratico dei ragazzi e delle ragazze felici il giovedì sera di essere insieme per una birretta. Il traffico. I vestiti. Il cibo casual. I cani col cappottino. I gelati enormi: è semplice, è normale, è Israele come potrebbe essere se non fosse assediata da un fervore ideologico che odia gli ebrei e la democrazia occidentale. Oggi se n’è andato anche Barak Lufan gravemente ferito durante l’attacco. Lufan aveva 35 anni, padre di 3 figli era del kibbutz di Givat Shmuel. I primi due ragazzi uccisi, Tomer Morad e Eitan Megin, i due giovani che venivano dalla provincia, Kfar Saba, sono stati falciati seduti al bar mentre gli spari creavano la fuga in grandi ondate di tutta la folla nel centro; e come gli altri ragazzi che ora all’ospedale lottano per sopravvivere, la loro vita era un’aspirazione alla tolleranza, alla simpatia, all’adesione alle regole fondamentali dell’idealismo liberale.
Restano legati per la vita durante il durissimo servizio militare, spesso eroico, in cui tutti i giovani maturano e diventano amici per la vita, come Tomer e Eitan, in un Paese in continuo pericolo. L’aspirazione a una vita quotidiana vissuta in una società libera, la nostra società occidentale e democratica, l’avete sentita tutti i giorni riferita all’Ucraina in guerra con la Russia. Fatte le debite differenze, ma ricordando che solo nella seconda Intifada ci sono stati quasi 1500 uccisi, e centinaia nell’Intifada dei coltelli del 2015, Tel Aviv, una specie di manifesto dell’Occidente libero, ieri è stata assediata durante un ultima ondata di terrore, 4 attentati in 10 giorni, 14 morti: la gente è rimasta rinchiusa in casa per lunghe ore in cui si ricercava il terrorista fuggito. É stata assediata, costretta a restare prigioniera dalla prepotenza antisemita che domina tutta la cultura islamista che ispira il terrorismo. Il terrore ha nulla a che fare coi “territori”, perché colpisce uomini donne e molti bambini dal 1920; nulla con lo Stato Palestinese, che è stato offerto e rifiutato mille volte; nulla con la pretesa di colonialismo ebraico, perché gli arabi sanno benissimo che Gerusalemme prima degli arabi ha conosciuto il Popolo ebraico; né con la conquista armata, perché gli ebrei uno a uno sono tornati a casa, quando quella era rimasta l’unica loro patria possibile, e si sono sempre limitati a difendersi. Il terrorismo che piove in queste settimane su Israele ha a che fare con la determinazione ideologica a eliminare gli ebrei e con essi Israele, infatti viene definita coraggiosa dalla Moschea di Giaffa dove il giovane che ha sparato sui giovani viene chiamato “eroe” e “shahid”, mentre a Jenin il padre di Raed Hazem si dice felice di aver avuto un figlio tanto valoroso, che porterà alla fine dello Stato Ebraico. Nelle cittadine arabe si distribuiscono dolci in segno di gioia. È ora che il mondo si renda conto che questo odio non è parte di un “confitto israelo-palestinese”. Non è così. Va molto oltre anche il Medio Oriente, riguarda il rifiuto della nostra cultura, della nostra democrazia, riguarda una esaltazione della peggiore fra tutte le aspirazioni umane, quella a coltivare l’odio e a nutrirlo di sangue. Quello che ieri, seguendo per lunghe ore in diretta, in una specie di florilegio paradossale del diritto all’informazione in uno Stato democratico, lo sconcerto e la disperazione di Tel Aviv si è tuttavia potuto vedere, è stata anche la determinazione assoluta e anche la capacità delle forze di sicurezza Israeliane di trovare alla fine il terrorista, sparito dopo l’attacco nell’intricata mappa della metropoli verso una destinazione lontano, nel caos della folla e dei giornalisti attaccati in maniera sconcertante alle unità in caccia. Abbiamo visto in diretta come le unità speciali sono riuscite a portare a termine, in mezzo a una confusione indicibile, un’operazione quasi impossibile, trovando il terrorista, scontrandosi con lui, uccidendolo. Anche questa è la storia di Israele: la vita qui è difficile, è una battaglia, è crudele. Tre vite meravigliose sono state perdute: ma alla fine questa lotta così dura, è una battaglia vittoriosa. Tel Aviv torna al ristorante, l’ha già fatto tante volte da capo, dopo tanti attacchi.
(articolo ripreso, con il consenso dell’autrice, da Informazione Corretta)
Lascia un commento