Nella bozza delle conclusioni del vertice dei 27 capi di governo Ue, che si è tenuto a Versailles, si legge che: «La guerra di aggressione della Russia rappresenta una svolta tettonica nella storia europea». Da qui l’impegno collettivo «ad un aumento sostanziale delle spese militari» e anche alla graduale eliminazione delle importazioni dalla Russia, inclusi petrolio, gas e carbone.
L’autonomia energetica, come si è scoperto un po’ in ritardo, assume una valenza strategica. Così come l’esigenza di arrivare alla creazione di una forza di difesa e sicurezza condivisa. Davanti alla percezione di una minaccia esterna così grave e così vicina, l’Unione europea scopre, con un ritardo di circa ottanta anni, la necessità di uno strumento di difesa dei propri confini. Anzi scopre l’esigenza e la criticità dei confini ad Est come a Sud.
La questione di una forza europea di sicurezza e di difesa era sentita già dai padri fondatori, mentre l’Europa era divisa dalla “cortina di ferro” e il mondo congelato nelle sfere di influenza della Guerra fredda. Il problema per i Paesi che aderivano alla Comunità europea, prima, e all’Unione (1992), era quello dei delicati rapporti fra i vari Paesi europei occidentali, compresa la metà della Germania entrata fin da subito nella Comunità, e la Nato.
In realtà, contrariamente da quanto spesso si legge ancora oggi, il tema di una «forza armata europea è antico quanto quello della stessa Europa ed è legato ai momenti più importanti del processo di integrazione»[1]. Basti pensare al fallimento della CED, la Comunità Europea di Difesa, su cui tanto aveva puntato il presidente del Consiglio italiano Alcide De Gasperi e persino Carlo Sforza. La questione più seria era rappresentata dal fatto che la Guerra fredda poneva agli occidentali l’esigenza del riarmo della Germania per integrarla nella nascente organizzazione militare della Nato. Specialmente per fronteggiare la politica espansionistica di Stalin nell’Europa centrale ed orientale e poi l’espansione del comunismo nella Corea del Nord. Nei fatti, al di là delle diverse posizioni degli europei con opinioni pubbliche ancora ostili ad ogni idea di riarmo, non c’è dubbio che gli Stati Uniti guardarono al progetto della CED con la massima freddezza.
Solo l’Italia puntava a fare della Comunità europea una vera e propria comunità politico-economica. Del resto una comunità economica fondata sulla produzione di carbone e acciaio non poteva non contemplare una strategia di sicurezza anche sul piano militare.
Nell’incontro del Consiglio atlantico di Lisbona (20-25 febbraio 1952), con l’allargamento della Nato alla Grecia e alla Turchia, si posero anche le basi che portarono successivamente i “Sei” a firmare il trattato istitutivo della CED. Contemporaneamente si assicurava alla Germania il recupero della sovranità nazionale (27 maggio 1952). Sembrava possibile anche un rilancio delle idee federaliste con il trattato della CPE, Comunità Politica Europea, caldeggiata da Altiero Spinelli.
Le questioni si complicarono proprio per le vicende politiche interne ai due Paesi che maggiormente l’avevano sostenuta: l’Italia e la Francia[2]. Alla fine, però, la sorte della CED si giocò a Parigi, dove nel 1952 la coalizione di centro-destra aveva vinto le elezioni. L’opposizione al Trattato fu portata avanti dalle forze conservatrici e dai gollisti, ma anche da parte dei socialisti e specialmente dei comunisti, allineati con Mosca e sempre sostenitori del pacifismo a senso unico.
La Francia, poi, era alle prese con la guerra in Indocina che raggiunse il suo apice nella primavera del 1954 con la sconfitta di Dien Bien Phu. Intanto, anche la Gran Bretagna non remava a favore della CED, né le forze laiche e nazionaliste all’interno dei Paesi comunitari. Tanto che i principali sostenitori del progetto federalista e della CED, De Gasperi, Schuman e Adenauer, tutti e tre leader cattolici apparvero come l’espressione di una “Europa vaticana”.
I “neutralisti” in Italia, i comunisti e gli stessi socialdemocratici in Germania, temevano che il trattato CED avrebbe allontanato la riunificazione del Paese.
Il Parlamento francese nell’agosto del 1954 bocciò il trattato su una questione procedurale, ma, in realtà, i sentimenti nazionali erano radicati e non furono valutati. In più la Guerra fredda, anche dopo la morte di Stalin nel 1953, spingeva l’opinione pubblica verso la protezione americana secondo la logica dei blocchi contrapposti[3]. A questo proposito non si può ignorare che persino il segretario del PCI Berlinguer, nel luglio del 1976, in una intervista al giornalista Giampaolo Pansa, sostenne che si sentiva più sicuro sotto l’ombrello della NATO.
Infine come non ricordare che, dopo il crollo del Muro di Berlino, tutti i Paesi che avevano provato la “tirannide” di Mosca e i carri armati nelle loro strade e nelle loro piazze, Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia, per non parlare delle Repubbliche Baltiche, prima scelta che fecero fu quella di mettersi anche loro sotto l’ombrello protettivo della NATO.
La bocciatura della CED ebbe conseguenze notevoli: la prima fu quella di colpire insieme sia il disegno federalista che quello dell’esercito europeo. Ancora una volta il funzionalismo di Jean Monnet riprese il suo corso. Insieme con il mercato comune, coll’unione doganale fra i “Sei”, egli lanciò l’idea di un pool dell’elettricità, dei trasporti e sullo sviluppo dell’uso pacifico della energia nucleare (Messina 1955). Così i Trattati che istituivano la Comunità economica europea (CEE) e l’Euratom furono firmati il 25 marzo 1957 a Roma, in Campidoglio (Italia, Francia, Germania occidentale, Belgio, Olanda e Lussemburgo). L’Euratom doveva fornire a buone condizioni l’energia di cui l’Europa dei “Sei” avrebbe avuto bisogno e nello stesso tempo assicurare una maggiore indipendenza nel settore nucleare. Il tutto nel quadro di un assetto istituzionale: la CEE, l’Euraton e la CECA; un’Assemblea comune di 142 parlamentari eletti dai Parlamenti nazionali con funzioni di controllo sulle decisioni della Commissione dei membri della CEE. La Comunità di crisi in crisi continuava ad andare avanti con uno straordinario sviluppo economico e civile, che nemmeno i momenti più bui della Guerra fredda riuscirono a fermare.
Aveva ragione Jean Monnet quando, a proposito del fallimento della CED, dichiarò: «La costruzione dell’Europa non è la realizzazione intellettuale di un sogno, bensì l’adattamento di questo sogno alla realtà». Parole sagge e vere.
Il Generale De Gaulle, dopo il colpo di stato in Algeria, il 1° giugno 1958 andò al potere in Francia. La sua visione dell’Europa si potrebbe riassumere così: una Unione degli Stati e non gli Stati Uniti d’Europa.
La Guerra fredda diventava sempre più “calda” con la crisi di Berlino che culminò con la costruzione di un “Muro” che tagliava in due l’Europa e rendeva impossibile la fuga dei tedeschi dell’Est verso l’Occidente. A migliaia tentarono di scappare e molti ci lasciarono la vita. In quel momento il Presidente americano John Kenendy, amico di Monnet, varò un grande piano per favorire gli scambi con l’Europa occidentale; ma, nello stesso tempo, con la crisi di Cuba e con la sua visita a Berlino, dimostrò che la difesa dell’Occidente passava per gli Stati Uniti e l’Alleanza Atlantica.
De Gaulle, intanto, dotava la Francia di una forza atomica e nel 1966 usciva dall’organizzazione militare della NATO, pur restando alleata. De Gaulle riconosceva la Cina comunista, visitava la Russia (giugno 1966), disapprovò gli americani per la guerra in Vietnam e propose la neutralizzazione. Infine non sostenne Israele nella “Guerra dei sei giorni” (giugno 1967). Cercava un ruolo di grande potenza per la Francia, ma il bipolarismo della Guerra fredda non lasciava che un piccolo spazio.
Intanto l’Europa marciava dai “Sei” ai “Nove” con Irlanda, Danimarca e Norvegia. Mentre l’Inghilterra restava nella Comunità economica ma poneva le sue condizioni, mettendo davanti il primato dei rapporti con il Commonwealth e gli Stati Uniti.
Nel 1972 si realizzò il Consiglio europeo, sempre ispirato da Monnet. Tre volte all’anno i capi di Stato e di governo si sarebbero dovuti riunire per organizzare la “cooperazione politica”. Nel 1979 si creò il sistema monetario europeo. Infine si arrivò a dare corpo alla istituzione del Parlamento europeo (1979), di cui Simone Veil fu la prima Presidente. Nelle elezioni prevalsero le forze popolari moderate e i socialdemocratici, ma entrarono anche 48 comunisti, di cui 27 italiani, 10 francesi, 4 greci e 1 danese. Nelle elezioni successive del giugno 1984 la maggioranza fu confermata e i comunisti persero 6 seggi.
La Guerra fredda era entrata nella sua fase finale, con i Paesi dell’Est Europa tenuti sotto il tallone dai carri armati sovietici. Mentre i Paesi europei della Comunità, saliti a 12, erano avviati su un cammino di crescita economica e sociale. Coperti dall’ombrello della NATO, che permetteva loro di investire nello sviluppo civile e sociale, senza preoccuparsi della spesa militare per garantire alla Comunità una autonomia di difesa e sicurezza. Poi arrivò, improvviso e fragoroso, il crollo del Muro di Berlino (1989) e poi la fine della Unione Sovietica. Solo allora fu ripreso il tema di una forza militare europea integrata. La questione entrò nel vivo con il Trattato di Maastricht, che segnò il passaggio dalla Comunità all’Unione.
La Guerra fredda era finita, ma non erano finite le guerre. Come subito si vide nel Golfo e così nella Jugoslavia, dove la dittatura di Tito era riuscita a far convivere etnie e popoli tanto diversi. La dittatura, del resto, era anche la ricetta con cui si erano frenate le rivendicazioni nazionali e di etnie tanto diverse nell’impero sovietico. Ho visto un servizio sulle guerre terribili, le pulizie etniche, nella guerra di tutti contro tutti della Jugoslavia, che pretendeva di spiegare tutto in maniera semplicistica: con Tito filava tutto liscio, dopo, con la fine di Tito e del comunismo, ritornava il nazionalismo bellicista e gli odi fra etnie e religioni. Le cose sono un tantino più complesse. Le nazioni c’erano anche in Europa occidentale, ma il ritorno della democrazia e della libertà, anche per le dittature di destra o militari dalla Grecia al Portogallo e alla Spagna, avevano aperto uno spazio di convivenza pacifico e fruttuoso. Questa era l’Unione europea che con il Trattato di Maastricht era diventata un polo di attrazione per i Paesi dell’Est Europa che uscivano dall’esperienza della “cortina di ferro” e del comunismo. Solo la democrazia e lo sviluppo sociale ed economico potevano tenere insieme le diversità interne anche delle nazioni dell’Europa occidentale e mediterranea.
Le classi dirigenti si illusero, però, che si sarebbe aperta un’era di pace e progresso assicurata dall’apertura dei mercati a livello globale. Tanto è vero che, senza bilanciamenti e prudenza, anche la Cina, in pochi anni, dal 1995 in poi, entrò nell’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Tuttavia, non è vero che in Europa non ci si occupò del tema della difesa e della sicurezza. Anzi. Già alla fine degli anni Ottanta Francia e Germania si adoperarono per creare un Consiglio di sicurezza e difesa e per la creazione di una brigata franco-tedesca destinata a diventare nel 1992 l’Eurocorpo[4]. A Maastricht Francia e Germania proposero di dar vita ad un organismo di difesa dell’Unione europea. Inglesi e olandesi si opposero per timore di un indebolimento della NATO. «Da allora – scrive Mammarella – il problema dei rapporti con la NATO diventerà il maggior ostacolo che impedirà o ritarderà la creazione di una forte armata europea producendo una serie di iniziative tanto numerose quanto frammentarie che nel corso degli anni diventeranno la fonte principale di malintesi e sospetti tra Europa e Stati Uniti»[5].
Il trattato di Maastricht (Titolo I, art. B) sottolineava che tra gli obbiettivi dell’Unione c’era quello di affermare «la sua identità sulla scena internazionale mediante l’attuazione di una politica estera e di sicurezza comune ivi compresa la definizione a termine di una politica di difesa comune»[6]. In modo involuto nasceva la Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC), prevista dal Trattato.
Nel 1992 l’Unione europea occidentale decideva di partecipare alle Missioni di Petersberg, cioè interventi umanitari di peace-keeping e quelli per la gestione delle crisi e la risoluzione dei conflitti. Tutto ciò mentre nella ex Jugoslavia infuriava la guerra di tutti contro tutti. Nel 1995 nasceva Eurofor, una forza di reazione rapida diretta a operazioni nel Mediterraneo, con Francia, Italia, Spagna e Portogallo e nello stesso anno Euromarfor. Tutti e due alle dipendenze della Ueo e poi, nel 1999, della stessa Unione europea. Tutto ciò in coordinamento con la NATO, come si vide con la costituzione di una Identità di Sicurezza e di Difesa Europea. Sempre nel 1999 la PESC si trasformava in PESD, cioè Politica Europea di Sicurezza e Difesa.
Se non fosse una cosa seria, verrebbe da sorridere, anche perché sorsero altri organi come il Comitato Politico e di Sicurezza (Cops) per il monitoraggio e la gestione delle situazioni di crisi internazionali. Poi il CMUE, il Comitato Militare dell’Unione. Infine uno Stato Maggiore dell’Ue, un organo esecutivo per le decisioni del COPS. Una montagna di sigle e un apparato burocratico-militare fondato sulla moltiplicazione degli organi.
A Saint-Malo Jacques Chirac e Tony Blair avevano dichiarato che la Ue doveva avere «la capacità di intraprendere azioni autonome sostenute da forze militari credibili»[7]. Poco dopo, ad Helsinki, il Consiglio europeo varava una forza di reazione rapida (Eu Rapid Reaction Force) di 100.000 uomini. Puntuale arrivava il freno del governo americano. Si voleva evitare la duplicazione, la divisione della strategia europea da quella della NATO. Infine l’esclusione dei membri che non fossero membri della Ue. Era il caso della Turchia, dove c’era la più grande base NATO. Una dichiarazione congiunta Ue-NATO nel 2002 confermava che l’America voleva mantenere il controllo della forza militare. Nel 2004 l’Unione europea creava l’EDA (European Defence Agency), con l’obbiettivo di promuovere la ricerca di tecnologie per la difesa e la cooperazione in materia di armamenti.
Si agiva con lentezza, mentre nel mondo si apriva uno “scontro di civiltà” imponente con l’attentato alle Torri Gemelle l’11 settembre 2001. Ormai si trattava di fronteggiare una situazione mondiale grave e gli USA erano in prima linea nella lotta all’integralismo islamico e al terrorismo jihadista. Si pensava di esportare e imporre la democrazia, ma non era impresa facile, tantomeno con le armi.
L’Europa, ormai, era sempre più grande, ma non riusciva a darsi una cornice istituzionale condivisa con il fallimento del progetto di trattato costituzionale nel 2005. In quel periodo prese corpo il progetto di Eurofighter, ma anche l’industria degli armamenti dei Paesi europei procedeva separata.
Siamo all’oggi e la crisi della Crimea, annessa da Putin, e la guerra con l’Ucraina per le regioni del confine orientale vedono l’Unione europea incapace di avanzare, anche con la minaccia della forza, proposte di assetto condiviso del confine con la Russia. Fra Paesi dell’Est europeo che erano entrati nella Ue e nella NATO ed altri, come l’Ucraina, che lottavano per affermare la loro autonomia nazionale e poi chiedevano di entrare nella Ue. L’Ucraina dal 2014 si trovava a fronteggiare la rivolta armata delle regioni di confine con la Russia, sostenuta da Putin.
Putin, ormai, non si limita alle minacce, ma agisce, mentre l’Unione non sa come reagire ad una aggressione militare in spregio a tutti gli impegni internazionali, come ha ricordato Sabino Cassese[8].
La svolta della Ue è stata traumatica e ha riguardato in primis la Germania, che, per la prima volta dal dopoguerra, ha deciso di inviare armi a Kiev e aumentare al 2% del PIL le spese militari. La Danimarca ha indetto un referendum per aderire all’Eurodifesa, da cui si era a suo tempo esclusa. Finlandia e Svezia meditano di entrare nella NATO.
La Ue sta tentando di svincolarsi progressivamente dalla dipendenza di gas e benzina della Russia, dopo aver imprudentemente varato un ambizioso piano con il Green Deal. La Ue si accorge – non è mai troppo tardi – dell’esigenza di una autonomia strategica, militare ed energetica, dopo quella per fronteggiare unitariamente la pandemia del Covid. Si riuscirà adesso a portare in porto l’antico progetto dell’Eurodifesa. A parole sembrerebbe di sì. Nei fatti, ancora una volta, occorrerà risolvere i rapporti con la NATO e con gli Stati Uniti, che, ancora oggi, forniscono il 75% della capacità operativa, il 70% degli apparati strategici (ricognitori, elicotteri, comunicazioni satellitari ecc.). Più il 100% della difesa antibalistica e 80.000 soldati.
Però è certo che oggi la guerra di Putin non si può risolvere con l’appeasement. Per difendere la pace, bisogna riuscire a dissuadere gli altri dal fare la guerra. Per questo non basta la diplomazia per volere la pace.
[1] G. Mammarella, Europa e Stati Uniti dopo la guerra fredda, Il Mulino, Bologna, 2010, p.49
[2] Cfr. G. Mammarella, P. Cacace, Storia e politica dell’Unione europea, Laterza, Roma-Bari, 2005, p.71
[3] Cfr. J.B. Duroselle, Storia dell’Europa. Popoli e paesi, Introduzione di S. Romano, Bompiani, Milano, 1990
[4] Cfr. G. Mammarella, op. cit., p. 49.
[5] Ibidem
[6] Ivi, p.50.
[7] Ivi, p.51.
[8] Cfr. S. Cassese, È tutto illegale, in “Corriere della Sera”, 8 marzo 2022.
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