Perifericità, insicurezza e difficoltà di adattamento ai nuovi scenari si intrecciano sullo sfondo di un recente saggio, “Tra Prato e Carrara: tre passi nella storia e una finestra sul futuro della Toscana settentrionale” (Società Apuana Editrice 2021) nel quale Andrea Balestri racconta una serie di spaccati legati a quaranta anni di attività professionale svolta nel sistema associativo confindustriale, uno dei tanti soggetti collettivi che concorrono più o meno consapevolmente alla costruzione del capitale sociale. Partendo dalle tesi del libro la mattina di sabato 19, presso il Nursery campus, a Pistoia, un gruppo di esperti si confronterà con l’autore sui nuovi assetti del territorio, le città intermedie e i loro rapporti a bassa intensità con le aree metropolitane della Toscana.
Pubblichiamo intanto di seguito una riflessione, sul tema, dell’economista Andrea Balestri:
Mentre calava il sipario sul primo ciclo della programmazione (2014-2020) a favore delle fragili “aree interne”, con i suoi blandi risultati, i riflettori sui divari nei livelli di sviluppo regionale si sono spostati sulle prospettive delle “città intermedie”. Prive dell’appeal dei centri metropolitani in termini di dinamismo e di stili di vita, anche queste infatti si scoprono poco attrattive per le schiere dei giovani alla ricerca di maggiori opportunità nel mercato del lavoro e, in generale, di una diversa densità sociale. Centri come Pistoia, Carrara e Prato, protagonisti negli Ottanta e Novanta del successo dei localismi (industriali, turistici, enogastronomici…), stanno progressivamente perdendo terreno rispetto alle aree metropolitane e iniziano a chiedersi quale sia il loro posto nella regione, domanda che sottintende sia una ricerca di senso che l’esigenza di rimettere a fuoco la propria identità territoriale.
Per il momento quello di una deriva carsica che affligge i centri intermedi della Toscana è solo un affresco indiziario da sottoporre a verifiche con programmi di ricerche mirati. L’emersione di nuovi assetti socio economici nella geografia regionale, in ogni caso, sta facendo perdere grip sia alla penetrante tassonomia messa a punto a metà anni Settanta dall’Irpet di Giacomo Becattini e Giuliano Bianchi, quella della immaginifica “campagna urbanizzata”, che alle semplicistiche schematizzazioni di una regione divisa tra la costa in crisi e il resto della Toscana. L’evoluzione degli ultimi anni lascia intravedere, piuttosto, un’altra dicotomia tra la valle dell’Arno che si estende dall’area metropolitana di Firenze a quella di Pisa e Livorno, e il resto della regione con le aree interne e i centri intermedi, questi ultimi afflitti da diverse gradazioni di perifericità. La divaricazione non è netta e i confini tra di loro non sono nitidi (e non potrebbe essere diversamente) ma il divario campeggia sia nelle narrazioni delle cronache locali che nelle tabelle PNRR delle grandi opere infrastrutturali toscani, nettamente sbilanciate tra stadio Franchi e nuove tramvie per arrivare alla Darsena Europa. Come evoca la leggenda del cavaliere di Samarcanda, sembra che si investa per rendere ancora più agevole raggiungere centri storici già sovraffollati e per intasare ulteriormente tracce ferroviarie, superstrade e autostrade già ingolfate. Tra porto, aeroporti, nodi ferroviari e terze corsie, l’asimmetria degli interventi in infrastrutture a favore dell’asse Firenze Pisa Livorno in verità era già evidente nel piano per i trasporti e la mobilità dell’assessore Riccardo Conti dei primi anni Duemila. Non che allora concentrare quasi tutti gli interventi sulle tre città avesse senso o fosse una scelta ponderata; a maggior ragione non lo è oggi dopo che la pandemia ha drasticamente ridotto il raggio e la frequenza degli spostamenti ed ha rilanciato il lavoro agile.
I centri intermedi in alcuni campi riescono comunque a conseguire risultati straordinari ed anche se nelle applicazioni tecnologiche e nei servizi avanzati sembrano condannati a gareggiare in posizioni di media classifica, ognuno a modo suo cerca di colmare i vuoti creati dall’appannamento delle attività tradizionali con un colorito ventaglio di progetti (compresi alcuni improbabili): arte, natura, sostenibilità, rigenerazione urbana, valorizzazione di contenitori industriali abbandonati, start up e tanta offerta turistica non convenzionale: cammini, ciclo tour e giacimenti enogastronomici. Il fatto di gareggiare in posizioni di media classifica, in ogni caso, non smorza le ambizioni e non preclude la possibilità di tagliare traguardi di prestigio ma il sentiero che porta al rilancio dei territori intermedi è tutto in salita, persino di più di quello delle aree interne. Proprio per questo la nuova geografia economica della Toscana richiede un ripensamento della programmazione dei fondi europei 2021-2027, per approdare ad un più giusto equilibrio tra i grandi progetti e la domanda di empowerment dei centri intermedi.
E’ vero che fuori dalle aree metropolitane gli amministratori sono più vicini ai problemi; resta da colmare, tuttavia, il gap di competenze e di massa critica culturale necessarie per migliorare le decisioni collettive. La deriva periferica non si contrasta, come spesso si continua a fare, con uno o pochi progetti di punta (emblematico il “Piano dei borghi” del Ministero della Cultura) ma con una batteria di obbiettivi coordinati e coerenti con la dotazione di risorse, la storia, il carattere e le dimensioni demografiche. Per questo occorrono più visioni e coraggio nei gruppi di persone che influenzano le scelte in materia di politiche pubbliche locali. Per ragioni demografiche, i bacini nei quali le élite delle città intermedie pescano i nuovi componenti scontano il filtro della selezione avversa basata sulla cooptazione al posto del merito, andando così a influire negativamente sulle scelte di parte delle giovani generazioni che preferiscono realizzare i propri progetti di vita nei grandi centri metropolitani. Senza adeguato ricambio, le élite si incartano in blocchi culturali refrattari a letture non convenzionali delle sfide e, con i loro prolifici uffici stampa, ingolfano le arene collettive dove negli anni del boom e dello sviluppo ci si confrontava con spirito critico sulle politiche pubbliche. Ai centri sia piccoli che grandi, infine, fa difetto (non solo in Toscana) il ricorso sistematico alle analisi costi benefici e alla valutazione indipendente delle politiche pubbliche. L’applicazione sistematica di questi strumenti, da sola, potrebbe non modificare l’allocazione degli investimenti tra aree metropolitane e resto della regione. E’ verosimile che vada in questa direzione e in ogni caso contribuirebbe a creare maggiore consapevolezza e consenso sulle grandi opere.
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