Il Terzo assente è il titolo di una raccolta di saggi di Norberto Bobbio pubblicata nel 1989, che ben rappresenta la situazione nella quale si sta drammaticamente svolgendo la guerra in Ucraina.
Poiché a mio parere questo elemento, importantissimo, sembra essere totalmente rimosso dal dibattito pubblico sul conflitto, cercherò di sostenere, proprio a partire dall’assenza del terzo, le ragioni, così neglette e avversate, del pacifismo.
Iniziamo con la descrizione di quanto è avvenuto due settimane fa. Dopo che lo scontro tra Russia e Ucraina – in atto dal 2013, con le proteste di Euromaidan – è riesploso violentemente a seguito di un’accelerazione sulla richiesta dell’Ucraina di entrare nella NATO, e dopo che gli Stati Uniti hanno alzato il tiro rendendo lo scontro rilevante a livello mondiale e annunciando l’imminente attacco russo, la Russia ha prima riconosciuto le due Repubbliche indipendentiste del Donbass e poi, nella notte tra il 23 e il 24 febbraio, ha invaso l’Ucraina e iniziato a bombardare le principali città, da Kharkiv a Kiev, da Odessa a Mariopol.
Subito è scattata la condanna dell’invasione da parte di tutto l’Occidente, che ha deciso prima una serie di sanzioni economiche contro il Cremlino, e poi l’invio di armi all’Ucraina, in risposta alla richiesta di aiuto del Presidente ucraino Zelensky.
Come era possibile fare diversamente? Viene detto. Un popolo è stato aggredito, e deve essere sostenuto, certamente con aiuti umanitari, ma anche con i mezzi necessari a difendersi dall’aggressore. Viene evocato il paragone con la Resistenza italiana, che imbracciava le armi degli alleati per liberare il paese dal nazifascismo. E Putin viene descritto come il nuovo Hitler, che deve essere fermato a tutti i costi per evitare che le sue mire espansionistiche, dopo la Crimea e ora l’Ucraina, possano muovere poi verso la Moldavia, la Georgia, le Repubbliche Baltiche e così via.
Questa narrazione ha una sua forza, supportata anche dall’apparato di immagini della guerra e di storie tragiche di bambini morti sotto le bombe, e soprattutto dal ritratto eroico del Presidente che ha rifiutato la proposta di lasciare il paese ed è rimasto a Kiev con tutta la sua famiglia a guidare la resistenza dell’intero popolo.
Ma questa narrazione omette le alternative che avrebbero potuto essere attivate, e cancella d’un colpo decenni di lavoro sul diritto internazionale, le cui premesse filosofiche e giuridiche sono un patrimonio essenziale del pensiero occidentale.
Dall’inizio della storia della civiltà fino al Novecento, gli Stati si sono regolati con i meri rapporti di forza. Dal momento che, come sosteneva il Barone von Clausewitz, “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”, nel conflitto vale la legge del più forte. Una controversia internazionale, se non viene risolta con la diplomazia, viene risolta con la guerra, ovvero con la vittoria di una parte sull’altra. A quel punto, chi vince la guerra detta le regole della pace, che possono essere – nel migliore dei casi – la presa d’atto della situazione alla fine del conflitto (l’annessione dei territori occupati o conquistati) oppure addirittura la pretesa di una ancora maggiore umiliazione della parte sconfitta (con sanzioni ulteriori, altri territori sottratti, ecc.). La storia dimostra che la gestione della fine di una guerra getta spesso le basi della guerra successiva.
Su questa verità storica hanno posto l’attenzione i primi pensatori della pace: dai giusnaturalisti del XVII secolo Grozio e Pufendorf, i quali – dopo aver assistito alle guerre sanguinosissime del loro secolo – non si accontentarono più della teoria della guerra giusta, ma cominciarono a porre le basi del diritto internazionale (ius gentium); passando all’abate Saint-Pierre che, avendo partecipato alle negoziazioni del Trattato di Utrecht per la fine delle guerre di successione spagnola, propose la creazione di una istituzione sovra-nazionale, un congresso arbitrale di rappresentanti dei singoli Stati stabilmente insediato, per risolvere giuridicamente le controversie internazionali; fino a “Per la pace perpetua. Un progetto filosofico” di Kant, che nel 1795, a seguito della pace di Basilea tra la Francia rivoluzionaria e la Prussia, indicava i principi di un diritto internazionale capace di garantire la pace, la sicurezza e la stabilità degli Stati.
Durante il corso della modernità, si è andata profilando l’idea che, per superare la guerra e costruire le basi di una pace duratura, fosse necessario costruire un luogo, formato dagli Stati e al di sopra di essi, nel quale definire le regole del diritto internazionale e dotato dell’autorità morale e politica per farle rispettare.
La Società delle Nazioni, nata dopo lo sfacelo della prima guerra mondiale, era un embrione ancora troppo debole e inefficace rispetto alla situazione che andò precipitando nella seconda guerra mondiale. L’Organizzazione delle Nazioni Unite del 1945 raccolse quella difficilissima eredità, con la maggiore consapevolezza dovuta all’emersione del totalitarismo, alla tragedia della Shoah e al rischio di guerra nucleare. Pur con tutti i suoi limiti, l’ONU ha cercato di esercitare in vari contesti quel ruolo di terzo sopra le parti, capace di ricostruire la pace in zone di guerra. Le attività di peacekeeping sono state il mezzo per risolvere conflitti tra Stati, attraverso l’impiego di personale militare disarmato o con armamento leggero, inviato da più Stati sotto il coordinamento ONU, in aree dove le parti avevano bisogno di una terza parte neutrale come osservatore del processo di pace. Queste operazioni di peacekeeping hanno nel tempo ingaggiato anche personale non-militare, per favorire il funzionamento di attività come quelle di protezione civile e di libere elezioni.
A fronte di successi ottenuti, per esempio in El Salvador o in Mozambico, i fallimenti registrati in Somalia, Ex Jugoslavia e Ruanda hanno determinato il ripiegamento, e dunque il ridimensionamento, che ha via teso ad azzerare il ruolo dell’ONU nei conflitti; questo processo ha avuto corso soprattutto nell’era post Guerra Fredda, che non ha ancora trovato l’ubi consistam di un nuovo ordine internazionale.
Tuttavia altri attori hanno giocato ruoli simili in contesti specifici: attori sempre di natura sovra-nazionale e capaci di interpretare quella terzietà necessaria a mettere d’accordo le parti. Per esempio l’Unione europea è stata più volte chiamata in causa per interrompere la spirale di violenza che ripetutamente si alza nel conflitto tra Israele e Palestina; l’OSCE ha partecipato al processo di pace del Nagorno-Karabakh, e anche al primo round di negoziati sul conflitto nel Donbass. Ma anche singoli Stati, che avendo rapporti economici o di amicizia tra Stati in conflitto, possono avere le carte per intervenire ad aiutare la pacificazione. Gli Stati Uniti lo hanno fatto, per esempio negli storici accordi di Camp David e poi di Oslo tra Israele e OLP.
Nella guerra in Ucraina, chi può avere la forza e la capacità di svolgere il ruolo di Terzo? Chi può intervenire per aiutare le parti a trovare, in quei tavoli negoziali che sono in corso sotto i bombardamenti, la via d’uscita?
L’ONU è immobilizzata dal potere di veto della Russia nel Consiglio di Sicurezza in quanto potenza nucleare; l’OSCE è stata smobilitata dall’Ucraina da USA e Regno Unito ancora prima dell’aggressione russa; l’Unione europea ha deciso di “entrare in guerra” con la Russia (così dice il nostro Ministro degli Esteri), insieme all’alleato atlantico sia con le sanzioni economiche sia con l’invio di armi all’Ucraina.
A queste decisioni politiche, si è accompagnata anche una militarizzazione del dibattito pubblico che ha polarizzato le posizioni tra chi sta con l’Ucraina e chi sta con la Russia, mettendo in quest’ultima coloro che non condividono l’invio delle armi. La meschina propaganda di una tale asserzione si dovrebbe commentare da sola; come si fa ad affermare che i pacifisti sono filo-Putin, cioè a favore di chi ha aggredito un popolo, sta bombardando le città e massacrando i civili, violando tutte le norme del diritto internazionale? Ma ancora più subdola e pericolosa è l’accusa al pacifismo di rappresentare una posizione di “comodo terzismo”. Dove sta la comodità di chi è attaccato ogni giorno verbalmente da tutte le parti? E dove starebbe la comodità di un Terzo, che laddove è agito si mette direttamente nel pericolo della forza d’interposizione e nel complicatissimo tentativo di mediazione?
Perché una mediazione è necessaria; perché una mediazione ci sarà.
La NATO ha già risposto negativamente alle richieste ucraine di istituire una “no fly zone” e di intervenire direttamente nella guerra. Quindi nessuno pensa, e nessuno dice, che bisogna sconfiggere la Russia, ma tutti dicono che bisogna fermarla.
Chi e come può fermarla?
Forse l’Unione europea ha perso l’occasione di essere il Terzo che ferma la Russia in una mediazione giusta tra le parti. L’UE, che è nata sulla scia dei progetti per la pace perpetua, entità federale e sovranazionale, garante della pace all’interno dei propri confini, per vocazione e per missione, dovrebbe sempre poter agire per dirimere i conflitti e far vincere la pace. Dovrebbe poter sempre dimostrare di essere quella forza politica e morale che, dopo aver sconfitto il nazifascismo, lavora per la pace e la cooperazione tra i popoli, almeno su tutto il continente europeo.
Come ebbe ad affermare uno dei campioni della lotta al nazifascismo, Charles de Gaulle, “per un’Europa dall’Atlantico agli Urali”.
Ilaria
Bellissimo articolo. Condivido ogni parola. Grazie
Sonia
Grazie, Daniela.