Negli ultimi decenni eventi prodotti da calamità naturali hanno comportato nel nostro Paese danni per più di 300 miliardi di Euro, dei quali circa 110 a causa di alluvioni e 150 indotti da eventi sismici[1], senza contare i danni economici indiretti che sono di difficile quantificazione. Migliaia sono state le perdite in vite umane.
Volendo focalizzare l’attenzione sul solo rischio sismico risulta che circa 3 milioni di persone (5% della popolazione) abitano in aree esposte a rischio molto alto (Zona sismica 1), 19 milioni (32%) in aree a rischio elevato (Zona sismica 2) e 18 milioni (30%) in aree a rischio basso (Zona simica 3). Da notare che le aree a rischio basso non possono assolutamente essere considerate sicure, viceversa non sarebbero a rischio. La prova di questa affermazione è il sisma dell’Emilia del 2012 che ha colpito proprio territori inclusi in questa fascia di sismicità a basso rischio[2].
Sulla base di questo scenario e utilizzando come parametro il sisma dell’Aquila del 2009 (evento distruttivo medionella scala delle intensità storicamente registrate in Italia) si può valutare che il 40% del patrimonio abitativo del Paese è a rischio e, pertanto, dovrebbe essere oggetto di interventi quantomeno di “miglioramento”, se non di “adeguamento” sismico. Stiamo parlando di circa 12 milioni di immobili che interessano circa 23 milioni di persone con un impegno economico stimabile in più di 90 miliardi di Euro, sempre facendo riferimento a eventi sismici classificabili come medi. L’importo è destinato ad aumentare se si entra nel dettaglio delle zone ad alta sismicità.
A fronte di questi dati, le cifre stanziate negli anni per la prevenzione dal rischio sismico, sottolineo prevenzione e non ricostruzione, sono state delle gocce. Così come, purtroppo, risultano essere ancora delle gocce gli stanziamenti previsti dal PNRR. Infatti la Missione 2 del PNRR (Rivoluzione verde e transizione ecologica) stanzia per gli interventi relativi all’efficientemente energetico e sismico dell’edilizia residenziale privata e pubblica un importo globale di 13,5 miliardi di Euro. Stimando che gli interventi nel campo sismico incidano per circa il 60% sul totale, l’importo stanziato per prevenire il rischio sismico si aggira sugli 8 miliardi di Euro; meno del 10% dell’impegno economico necessario per soddisfare la copertura di un rischio medio.
Se poi consideriamo ciò che è successo in tema di mancati controlli nell’applicazione Sismabomus 110%, provvedimento di per sé iniquo, frutto di una politica che privilegia gli interventi a pioggia agli interventi finalizzati a risolvere i problemi, la situazione assume tinte piuttosto fosche.
Spostando l’attenzione sul rischio idrogeologico vediamo che il PNRR, sempre nell’ambito della Missione 2, stanzia circa 2,5 miliardi di Euro per le misure necessarie alla gestione del rischio di alluvioni e per la riduzione del rischio idrogeologico.
Il rapporto ReNDiS 2020 (Repertorio Nazionale degli interventi per la Difesa del Suolo), redatto dall’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale)[3], evidenzia un importo complessivo di circa 7 miliardi stanziato in 20 anni dal Ministero dell’Ambiente (oggi Ministero per la transizione ecologica), per un totale di circa 6.000 progetti, su un importo complessivo di richieste di 27 miliardi (cifra che rappresenta una stima del costo teorici per la messa in sicurezza dell’intero territorio nazionale).
Su questo tema, in esito all’Istruttoria sugli “Interventi della Amministrazioni dello Stato per la mitigazione del rischio idrogeologico”, la Corte dei Conti[4] ha recentemente fornito la seguente raccomandazione: “Uno scenario così vasto e complesso impone la definizione di una strategia integrata di azioni di prevenzione e di gestione del rischio idrogeologico, superando definitivamente l’approccio emergenziale al problema del dissesto e agendo con misure di prevenzione e manutenzione del territorio. A tale proposito occorre definire con chiarezza l’ambito degli interventi, in particolare per quanto riguarda la prevenzione, evitando di creare sovrapposizioni con le misure emergenziali. Accanto agli interventi già programmati e finanziati di tipo strutturale, si ritiene altrettanto importante potenziare gli interventi di tipo non strutturale. Un miglioramento della resilienza delle strutture ed infrastrutture di servizio può certamente accrescere la sicurezza dei cittadini anche, ed in particolar modo, a seguito di eventi calamitosi ed emergenze. Tra le misure da implementare a tale scopo potrebbe essere utile lo sviluppo di un sistema tecnologico nazionale di gestione della informazione geografica e ambientale, che preveda l’impiego delle capacità satellitari nazionali e degli strumenti operativi di osservazione della terra dallo spazio e che consenta una comunicazione e una condivisione sempre più efficace delle informazioni.”
I fronti da presidiare sono molteplici, le risorse economiche sono limitate e oltremodo continueranno a esserlo a seguito della crisi prodotta dalla pandemia e dagli attuali sconvolgimenti provocati dalla crisi ucraina e dal rincaro dell’energia. Preso atto di questo, è urgente cambiare l’approccio con il quale, ormai da troppi anni, si è soliti affrontare i problemi della gestione dei rischi naturali, ma non solo di essi ovviamente.
Sono ben consapevole che una emergenza pone in secondo piano un’altra emergenza. Tuttavia, se nella gestione dei rischi naturali il nostro Paese continuerà nel tempo a intervenire in modo ancora troppo insufficiente nel campo della prevenzione, attraverso misure di intervento strutturali, non potremo che rassegnarci, nel medio e nel lungo periodo, a celebrare il triste rito del conteggio delle vittime e dei danni. Nel frattempo gli importi da investire saranno sempre maggiori.
È ben vero che i rischi dovuti a cause naturali, come qualsiasi altro tipo di rischio, non possono essere azzerati. Per quanto ingenti siano gli sforzi economici e tecnici messi in campo, non riusciremo mai a raggiungere l’obiettivo del “rischio zero”. Questo non per incapacità, ma per l’impossibilità che è insita nella stessa definizione di rischio[5]. A fronte di questa consapevolezza, ancora più incisivi devono essere gli sforzi per adottare le migliori azioni che portino i rischi a valori accettabili e che consentano di gestire la quota di rischio residuo.
Affinché ciò possa avvenire la politica, sulla base di informazioni di natura scientifica e tecnica, deve essere capace di decidere dove, come e quando intervenire per minimizzare il rischio attraverso interventi che, mettendo a fattore comune risorse sia pubbliche che private, facciano imboccare, per quanto più possibile, la strada della prevenzione lasciando all’emergenza la gestione dell’alea di rischio residuo.
È una operazione facile a farsi? No, ma se non iniziamo a ragionare in questi termini, sarà sempre più difficile, se non impossibile, avvicinarsi al raggiungimento dell’obiettivo di mettere in sicurezza il territorio.
[1] Fonte Consiglio Nazionale delle Ricerche
[2] Fonte Consiglio Nazionale degli Ingegneri
[3] Fonte ISPRA
[4] Deliberazione 18 ottobre 2021, n° 17/2021/G della Sezione Centrale di Controllo della Corte dei Conti sulla Gestione delle Amministrazioni delle Stato
[5] La Protezione Civile definisce il Rischio con la seguente relazione: R = P x V x E; nella quale: R = Rischio, P = Pericolosità (probabilità che un fenomeno di una determinata intensità si verifichi in un certo periodo di tempo, in una data area), V = Vulnerabilità (vulnerabilità di un elemento:(persone, edifici, infrastrutture, attività economiche), E = Esposizione (numero di unità di ognuno degli elementi a rischio presenti in una data area, come le vite umane o gli insediamenti). Per avere “Rischio zero” occorrerebbe che almeno uno dei fattori che contribuiscono a determinare l’entità del rischio potesse essere annullato, ma questo è statisticamente impossibile.
Lascia un commento