“Un anno sospeso” è il titolo del XXI Rapporto “Giorgio Rota” su Torino. Un’interessante lettura, molto articola. Focus sull’impatto che la pandemia ha prodotto sul sistema socioeconomico e, quindi, sulla vita delle persone. Si guarda al passato, agli ultimi 24 mesi, rilevando dati e analizzandoli statisticamente, ma si guarda al futuro: piani e programmi in controluce rispetto alle condizioni di partenza dei diversi territori metropolitani – quello torinese in particolare – mentre si avvia una fase che potrebbe rivelarsi di profonda trasformazione.
Ampio lo spazio dedicato all’istruzione, un comparto in sofferenza, in cui la pandemia ha messo in luce ciò che di buono c’è e ciò che non funziona.
Quello scolastico è uno degli ambiti che più ha subito gli effetti delle restrizioni conseguenti al Covid. Scuole e Università sono state tra i primi luoghi a essere chiusi allo scoppio della pandemia, nel marzo 2020, e mai più riaperti in quell’anno scolastico. A singhiozzo nell’anno 2020/21, con una netta prevalenza di attività didattiche a distanza (DAD). Molto meglio in questo a.s.
Ricordo benissimo la tensione palpabile nelle aule e nei corridoi scolastici quando, già a fine febbraio di due anni fa, docenti e studenti s’interrogavano a vicenda sulle sorte che, di lì a breve, li avrebbero fisicamente divisi, distanziati.
Allora nessuno aveva certezze, ma pochissimi immaginavano che quella separazione sarebbe durata per l’intero anno scolastico, e oltre.
Quello che ne è seguito sarebbe una narrazione davvero interessante da fare. La narrazione di una comunità che si sente tale solo “scuola per scuola”, come tante unità organizzative satelliti di un universo poco governato, dove ciascuno fa conto sulle forze proprie per affrontare i problemi che via via le/gli si presentano.
E così ci furono scuole che affrontarono la situazione con energia, arricciandosi le maniche e fornendo subito ai docenti gli strumenti – in primis una solerte e immediatamente spendibile formazione sulle applicazioni informatiche – per riprendere velocemente contatto con gli studenti. I ragazzi, smarriti e isolati, reagirono benissimo alla prima chiamata in DAD. Ma, purtroppo, non tutti la ricevettero. E fra chi la ricevette, in tempi più o meno lunghi, non tutti furono in grado di accoglierla. Basta pensare ai più piccoli, ai più fragili o disagiati.
Insomma, l’Italia dell’istruzione ha risposto a macchia di leopardo alle sfide inattese poste dalla pandemia e, come spesso accade, il destino degli studenti è dipeso moltissimo dalla qualità delle scuole in cui si erano iscritti molto prima che tutto ciò capitasse.
Tra i più temuti effetti di un’offerta didattica così problematica – ci dice il Rapporto – vi sono sia l’aumento dell’abbandono (con il conseguente calo di iscritti, tanto a scuola quanto all’università), sia l’impoverimento degli apprendimenti. Sul possibile temuto aumento della dispersione nelle estati 2020 e 2021, un po’ sorprendentemente (trattandosi di un tema così «sensibile»), non si sa ancora nulla, in quanto i dati ministeriali non sono ancora disponibili, al momento della chiusura del Rapporto.
Nella maggior parte degli atenei italiani nell’autunno 2020 si è registrato un incremento di nuovi immatricolati. Ciò è stato da molti attribuito all’offerta, pressoché esclusiva nell’A.A. 2020-21, di corsi in remoto, quasi sempre con registrazione delle lezioni, il che ha favorito – rispetto alla situazione pre-Covid – sia gli studenti «fuori sede» (non più costretti a trasferirsi, affittare casa, ecc.) sia gli occupati, meno vincolati a orari di lezione incompatibili con quelli lavorativi. Nell’estate 2020, possono aver inciso sulle scelte degli immatricolandi fattori molto diversi tra loro: oltre al consueto fattore del “prestigio” dei singoli atenei, i diversi livelli di offerta di corsi on line, così come le campagne di marketing con promesse di corsi in presenza; tra i fattori di contesto territoriale, vanno tenuti in conto i tassi di disoccupazione giovanile (che, dove elevati, possono aver favorito la scelta di giovani senza lavoro di iscriversi all’università) oppure l’offerta locale di sistemazioni abitative (pubbliche e private) per studenti: negli anni pre-Covid, per esempio, Torino era scelta come meta di studio anche per gli affitti degli alloggi, nettamente più bassi rispetto ad altre città universitarie. Quanto al rapporto tra frequentanti in remoto o in presenza, da un sondaggio del Politecnico torinese a settembre 2021 risultava orientata a seguire in presenza una quota piuttosto variabile degli studenti (dal 90% tra i neo immatricolati al 45% degli iscritti all’ultimo anno delle lauree magistrali, per un valore medio complessivo attorno al 70%).
Uno studio internazionale – curato dall’università di Oxford nella primavera 2021, sulla base di dati relativi al primo anno di Covid in diverse nazioni – ha permesso di stimare come la chiusura di scuole e università abbia contribuito a ridurre solo del 7% l’indice di contagio Rt, a fronte di un -26% nel caso della chiusura dei luoghi di ritrovo e a un -35% nel caso della chiusura degli esercizi commerciali.
A proposito della qualità degli apprendimenti, nel Rapporto si fa riferimento ai dati relativi alle bocciature nelle scuole a giugno 2020 e si analizzano definendoli “incoraggianti”. In realtà, chi ha vissuto la scuola in prima persona sa bene che quei dati non sono affatto attendibili, per due regioni. Entrambe riconducibili ad una Conferenza stampa dell’allora Ministro dell’istruzione, Azzolina. In quella sede il Ministro affermò – ad anno scolastico in corso e mentre molti docenti lavoravano intensamente fra mille difficoltà – che in quell’anno nessuno sarebbe stato bocciato. E così fu. Questo produsse sia l’effetto di rendere il dato delle promozioni inattendibile (e questo è solo un problema statistico), sia l’effetto di scoraggiare tanti studenti in difficoltà a trovare la forza di impegnarsi, durante l’incolpevole isolamento, per recuperare un anno difficile, rinunciando definitivamente a renderlo comunque fruttuoso.
Le prove INVALSI non furono svolte in quel primo anno di pandemia, mentre sono state svolte lo scorso a.s., ma solo per le classi quinte, e quest’anno stanno riprendendo regolarmente.
La comparazione dei risultati con gli anni precedenti rivelano un calo nell’acquisizione delle competenze. Ma ritengo, alla luce dell’analisi su singoli istituti, che anche qui l’effetto sia stato molto variegato sul territorio nazionale; con scuole che hanno mantenuto, o addirittura migliorato, gli standard precedenti alla pandemia.
Tuttavia il Rapporto rileva – a livello nazionale – una significativa corrispondenza per la maggior parte delle città: dove le scuole sono rimaste più a lungo chiuse – ovvero in DAD – i punteggi Invalsi sono peggiorati maggiormente (si vedano soprattutto i casi di Napoli e di Bari).
Dall’inizio della pandemia e fino a giugno 2021, le scuole italiane sono mediamente rimaste chiuse per 38 settimane, lo stesso valore registrato in Germania, superato solo da sei nazioni dell’Est Europa (Slovenia 47 settimane, Repubblica Ceca 46, Lettonia 45, Polonia 43, Bulgaria 41, Ungheria 39) (fonte: Unesco).
«Proprio alcune tra le regioni particolarmente colpite dalla dispersione scolastica già prima della pandemia – sottolinea un documento di Save the Children (2020) – sono quelle in cui si è assicurato il minor tempo scuola in presenza per i bambini e i ragazzi; mentre là dove le scuole hanno chiuso per meno tempo – come Roma o Firenze – si sono registrati peggioramenti più contenuti negli esiti delle prove Invalsi.
Da tali indagini, nel complesso, emerge una certezza: le diseguaglianze educative si sono acuite. E questo ci dimostra, ancora una volta, come un’istruzione di qualità non possa che passare da una didattica di qualità. Ben venga, dunque, il massiccio piano della formazione e aggiornamento dei docenti, di ogni ordine di scuola e grado che il Ministro Bianchi sta per varare. Nell’istruzione primaria, dove la didattica è centrale nelle corde di ogni operatore, ed ancor più salendo, all’istruzione secondaria (medie e superiore) e terziaria: università e ITS.
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