Non è stato certo gradevole assistere ad alcuni atti di violenza durante le manifestazioni studentesche, l’importante è non sottovalutare mai questi episodi. Vi sono state vicende ben peggiori, come vicende no vax e dintorni e l’assalto alla sede della CGIL e ci siamo persino ritrovati in Val di Susa una piccola riserva di mano d’opera insurrezionalista. Nulla al confronto con le manifestazioni degli studenti medi! Questi fenomeni di varia intensità sono endemiche in tutte le democrazie occidentali: è la dimostrazione che non sono solo un prezzo da pagare per vivere in modo differente dalla Federazione Russa o dalla Repubblica Popolare Cinese ma che il rispetto del dissenso, che pur tuttavia talvolta degenera in atti di violenza e di vandalismo che non devono essere accettati, segna il confine tra una società libera e un regime autoritario. Ma non è questo il fatto preoccupante: ben peggio il contenuto delle manifestazioni e peggio ancora l’ammiccamento da parte di politica e istituzioni.
Partiamo dal primo: occorre riconoscere che almeno quest’anno la tradizionale mobilitazione studentesca (ormai una ricorrenza come Halloween o il 25 aprile, o un rito d’iniziazione) ha un oggetto ben chiaro e comprensibile: l’abolizione dell’alternanza scuola-lavoro. Una cosa della cui esistenza fino alla morte del povero Lorenzo la stragrande maggioranza degli studenti medi non era neppure al corrente. Ma il corto circuito mentale alternanza-lavoro-morte si installa facilmente, tanto più se viene rafforzato dal luogo comune dei media e chi dovrebbe spiegare, aiutare a capire, dalla politica alla gran parte dei docenti, preferisce dar fiato ai lamenti, mostrare condivisione, confermare l’idea che gli studenti si sono fatti: il lavoro è solo sfruttamento e morte. La sottosegretaria all’istruzione, Barbara Floridia del M5S (cosa che non sorprende), sfoggia la propria preparazione in materia economica (insegnava italiano e latino) affermando che “dobbiamo dare risposte subito contro precarietà, insicurezza e sfruttamento del lavoro” e quindi occorrono “salario minimo, maggiore sicurezza sul lavoro e stop ai tirocini gratuiti”. Invece di spiegare come funziona e a che serve l’alternanza scuola-lavoro una figura che dovrebbe (?) essere un punto di riferimento per gli studenti mescola assieme nello stupidario del luogo comune precariato, povertà lavorativa, sicurezza sul lavoro, tirocini: non c’è da stupirsi se gli studenti pensano che compito della scuola sia quello di tenerli al largo il più possibile da questo inferno. E premurosa la scuola viene loro incontro: basta con l’oppressivo modello di alternanza dell’infame Jobs Act, oggi i “Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento” (PCTO) permettono che l’alternanza, anziché farla nelle imprese, gli studenti la possano fare in classe, con docenti esterni. Ma, intendiamoci, questo nei licei. Nelle professionali l’esperienza in azienda è ancora prevista, ma che volete: qualcuno alla fine dovrà pur lavorare, no? Concludendo e semplificando: complessivamente e al netto di fortunate e diverse esperienze, politica, docenti, sindacati, hanno offerto agli studenti questa immagine del lavoro. E li rafforzano nelle loro paranoie coccolandoseli quando le manifestano, anziché spiegare loro la realtà. Malafede, inadeguatezza, opportunismo? La scuola da parecchio tempo non è più un veicolo di crescita sociale ma rischia di diventare un impedimento proprio a danno delle classi più povere che solo attraverso una scuola efficiente possono ottenere le migliori opportunità. Per esempio, ci saremmo aspettati nel mondo della scuola almeno una discussione approfondita, se non un segnale di apprezzamento per il potenziamento degli Istituti Tecnici Superiori, l’unico canale di formazione para-universitaria professionalizzante integrato con le aziende che fa conseguire il titolo di tecnico superiore e che, soprattutto, garantisce a tutt’oggi entro 12 mesi dal conseguimento del titolo, più dell’80% dei giovani trovi un’occupazione stabile. Invece il silenzio regna sovrano là dove la ricerca di soluzioni adeguate dovrebbe mettere in ombra i luoghi comuni.
(questo articolo, con il consenso dell’autore, è ripreso da Mercato del lavoro news n. 121)
Mauro
Io ho espresso gli stessi concetti in un mio post avendone cognizione di causa
Sergio
Il commento sul tema è, a mio avviso , condivisibile sotto tutti gli aspetti ma in modo particolare per il suo approccio costruttivo ,di riflessione, mettendo in risalto alcune criticità come la corretta infirmazione da dare da parte dei soggetti istituzionali preposti.
Silvano Dalpasso
Sono un insegnante da parecchi anni in pensione e mi permetto di esporre una mia considerazione sul bell’articolo di Claudio Negro. Concordo in pieno con la constatazione che la scuola non è più un veicolo di crescita sociale (anche per una classe di docenti discutibili come “educatori”- nel senso etimologico del termine-) diventando in effetti un vero impedimento alla crescita sociale specie per i più deboli, destinati a perdere opportunità di inserimento nella vita produttiva. Ne è la dimostrazione la presenza di un “educatore”(?) in discipline matematiche in una terza liceo di Vicenza che, effettivamente dotato di grande conoscenza nella disciplina, si rivolge esclusivamente nel loro insegnamento a quei 2-3 alunni ben dotati dimenticando completamente nella loro funzione la rimanente parte della scolaresca (normalmente dotata) costretta dall’abbandono ad arrancare. Risultato : Disaffezione alla disciplina specifica (!!) con danno enorme alla conoscenza e inevitabile perdita di beneficio sociale. La situazione è ben nota (e dichiarata) nell’Istituto e nelle famiglie ma anche ai dirigenti scolastici che però non intervengono mancando in pieno alla loro funzione. E i giovani pagano non solo nella resa scolastica ma anche nella futura possibilità di lavoro.
Un danno sociale enorme del quale qualcuno è responsabile.
Anche questo contribuisce ad impedire alla scuola di essere veicolo di crescita sociale.